=TEORIA E CULTURA POLITICA, UN SAGGIO DI NICOLA MAGRONE EDITO NEGLI ANNI SESSANTA= Stampa
Scritto da Redazione   
Sabato 28 Novembre 2020 12:55

 

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DA CONSUMATORI SOVRANI
A CITTADINI

 di Mino Magrone

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Ritengo che sia opportuna l’iniziativa della rivista “Sudcritica” di pubblicare il saggio-recensione di Nicola Magrone dal titolo, molto interessante, Il Consumatore sovrano - Tramonto di un mito. L’attualità del tema è evidente, il suo posto - centrale nel dibattito culturale e politico - altrettanto chiaro.

Benché nell’originale copia a stampa non sia indicato l’anno preciso del saggio-recensione di Magrone, esso risale alla fine degli Anni Sessanta.

Magrone prende lo spunto per lo sviluppo delle sue riflessioni dal libro dell’economista russo/statunitense Paul A. Baran intitolato Surplus economico effettivo e potenziale. Da qui, Nicola Magrone avvia tutto un articolato discorso sulla funzione del consumatore nelle nostre economie e assimila, e quasi sovrappone, la funzione solo apparentemente “sovrana” del consumatore alla figura dostoevskijiana dell’uomo del sottosuolo. Assimilazione, secondo me, molto problematica perché, se da un lato l’uomo del sottosuolo è irrazionale e “vomita sulla ragione”, dall’altro il consumatore è sovrano perché con le sue decisioni di spesa iperrazionali determina la migliore, astratta e perfetta formazione dei prezzi, che sono la guida sicura di ogni scelta razionale.

L’uomo del sottosuolo non è morto e gli sviluppi disastrosamente consumistici delle nostre società lo dimostrano largamente. Ma, a ben vedere, forse Magrone credeva nella morte dell’uomo del sottosuolo e, quindi, del consumatore sovrano alla luce precorritrice di un rivolgimento sociale ed economico che in molti allora ritenevano possibile e quasi imminente.

Infine, è centrale in Magrone il discorso sui temi cari all’economista Baran.

Anche qui Magrone non poteva allora dire che in Baran molti argomenti si sposano con quelli di Keynes (Baran economista marxista, Keynes economista fortemente critico del laissez-faire liberista, ma non marxista). Non tanto sulla differenza che passa tra surplus economico effettivo e potenziale ma sulla definizione che Baran dà del surplus effettivo.

Quando Baran definisce che cosa è il surplus effettivo afferma che è “la differenza tra la produzione effettiva corrente e il consumo corrente della società”. Cioè, Baran dice che, indipendentemente dalla incapacità della nostra economia di raggiungere il livello di surplus economico potenziale (piena occupazione di tutte le risorse produttive), già al livello del surplus effettivo appare chiaro che il sistema è in crisi strutturale, perché il consumo effettivo del reddito prodotto non è in grado di riacquistarlo totalmente. E’ il cosiddetto divario di domanda causato dall’eccesso di risparmio che non può trovare impieghi. E qui siamo nel cuore dell’analisi keynesiana che tanto influenzò la rivoluzionaria e nuova politica economica del New Deal rooselvetiana. E non solo.

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il consumatore sovranoIl Consumatore sovrano:

tramonto
di un mito

La crisi, obbiettiva e artificiosa insieme, in cui si dibatte la nostra economia ripropone all’attenzione non solo degli studiosi di economia ma di tutti i lavoratori il problema fondamentale della razionalità o meno del nostro sistema economico e della capacità sua di svilupparsi sempre più, organicamente e razionalmente. Si può dire paradossalmente che grazie alle difficoltà attuali della nostra economia, i problemi economici vanno perdendo poco a poco la quasi assoluta impenetrabilità che li ha sempre contraddistinti. Non che la discussione sui temi di fondo del momento storico in cui viviamo sia solo ora impostata ed affrontata; si vuol dire invece che ora, come in tutti i momenti di crisi, quei problemi sono sentiti e sofferti dalla generalità degli uomini, chiamati direttamente e brutalmente in causa. Non c’è da meravigliarsi pertanto se, dopo l’iniziale inevitabile confusione di idee, i lavoratori cerchino sempre più affannosamente la spiegazione di fondo della crisi, anzi di tutte le crisi, che periodicamente si abbattono su di loro, sulle 1oro famiglie, sul loro lavoro; e si chiedano soprattutto se l’attuale sistema economico sia in grado di utilizzare al massimo, senza sprechi e contrattempi, la potenziale capacità produttiva del paese.

Nei periodi di espansione e di benessere ognuno di noi certat de lucro captando; è comprensibile il motivo per cui in tali momenti l’interesse dei lavoratori e la loro partecipazione ai problemi dell’economia non assuma toni vivissimi, tanto meno drammatici, disabituati come sono i lavoratori all’idea e alla pratica dell’amministrazione di patrimoni e capitali e ripercuotendosi il conseguimento di maggiori guadagni da parte di quei professionisti del profitto che sono gli imprenditori con lentezza e mai proporzionalmente nel mondo del lavoro. Quando le cose vanno a rotoli si combatte de damno vitando, e si sa come purtroppo colpiscano la fantasia e il modesto portafoglio dei lavoratori l’allarmante costatazione dell’aumento del costo della vita o della svalutazione della moneta, il blocco dei salari, i licenziamenti, portatori di lacrime e sofferenze, più che il dubbio o la certezza di guadagni ingenti o colossali dei datori di lavoro nei momenti di euforia, di entusiasmo e di fiducia nel destino dell’economia del paese.

Le contingenti vicende della nostra economia impongono ancora una volta a coloro che nello studio dei problemi economici tengono costantemente d’occhio il mondo del lavoro, di riaffermare l’irrazionalità e contraddittorietà del sistema capitalistico di produzione, fondato sul materialismo più volgare e propagandato con l’ausilio di grandi ed ingannevoli illusioni di libertà.

SURPLUS ECONOMICO EFFETTIVO E POTENZIALE

Si può ormai con relativa tranquillità affermare che il capitalismo provoca lo spreco e la distruzione di infinite possibilità e capacità di produzione; non vuole né può utilizzare sufficientemente tutte le risorse produttive di cui dispone: non vuole, perché più che dalla ragione esso è guidato dalla volontà di sempre maggiori profitti; non può, data la pluralità e contraddittorietà dei centri di decisione e di potere.

Possiamo esprimere i concetti appena esposti affermando che il sistema di produzione capitalistico non consente la realizzazione del surplus economico potenziale. Il concetto di surplus potenziale è in relazione ovviamente con quello di surplus effettivo: intendiamo per surplus effettivo la “differenza tra la produzione effettiva corrente e il consumo effettivo corrente della società” (Paul A. Baran), in altri termini, il risparmio; intendiamo per surplus potenziale la “differenza tra il prodotto che si potrebbe ottenere in un dato ambiente naturale e tecnologico con l’ausilio delle risorse produttive impiegabili, e ciò che si potrebbe considerare come consumo indispensabile” (Baran).

Il difetto strutturale del capitalismo sta proprio nella incapacità sua di consentire la realizzazione del surplus potenziale. Difetto inevitabile. L’analisi dei motivi che impediscono in economia capitalistica l’utilizzazione totale della capacità produttiva di un Paese, è quanto di più interessante e attuale.

I LAVORATORI IMPRODUTTIVI

Importante tra questi motivi è l’esistenza di numerose categorie di lavoratori improduttivi. La definizione di lavoratore improduttivo non implica, naturalmente, una valutazione morale. Qui non si parla di improduttività del lavoratore come di una sua presunta colpa o di un suo volontario modo di essere. Improduttivi molti lavoratori sono nella società presente perché essi, senza colpa alcuna, rappresentano fattori di produzione utili solo ai fini che la società capitalistica e solo essa si prefigge; inutili, quindi improduttivi, ai fini di una società costruita e governata secondo ragione. La scienza economica borghese non può certamente ammettere una distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo.

Essa guarda al mercato: tutto ciò che ha un prezzo sul mercato è utile, poco importa se una diversa organizzazione della società razionale e non caotica potrebbe far cadere nel nulla quella utilità o produttività per definizione. Pensiamo ai lavoratori impiegati nella produzione di articoli di lusso o di armamenti; pensiamo a gran parte dei funzionari statali, agli ecclesiastici, agli avvocati (almeno per quanto riguarda, come osserva Schumpeter, la loro attività nella lotta tra le aziende e lo stato), ai consulenti in evasioni fiscali, agli agenti pubblicitari, ai mediatori, ai mercanti, agli speculatori. Lavoratori che rivelano subito la futilità di notevoli aspetti della propria funzione sol che ci si ponga a valutarli dal punto di vista di una società razionale.

LA DISOCCUPAZIONE E LA SOTTOCCUPAZIONE

La disoccupazione di ingenti risorse umane e materiali è un altro grave ostacolo alla realizzazione del surplus economico potenziale. Qui non interessa tanto l’individuazione delle cause di tale disoccupazione, quanto la constatazione della rilevante quantità di prodotto perduto per l’immobilizzazione di masse di lavoratori. E nemmeno è necessario riferirsi esclusivamente al periodo di depressione del ciclo economico, quando ci si trova davvero in quella situazione apparentemente paradossale di miseria nell’abbondanza. Ché sempre, anche nei momenti più floridi, v’è una rilevante massa di lavoratori disoccupati o sottoccupati. “Ipotizzando una popolazione lavorativa identica a quella del 1929 - afferma Lubin - si osserverà che il numero complessivo degli anni-uomo perduti a causa della disoccupazione nel periodo che va dal 1930 al 1938 ammonta complessivamente a 43.435.000”. La mobilitazione bellica, precisa Baran, ha dimostrato chiaramente l’esistenza di un surplus potenziale; durante la seconda guerra mondiale gli Stati Uniti impiegarono ben dodici milioni di persone senza compromettere con ciò la produzione di armi, anzi aumentando il consumo del resto della popolazione, e sovvenzionando addirittura gli alleati di armi e generi alimentari. “L’intera guerra - la guerra più grande e più costosa della storia - fu sostenuta dagli Stati Uniti con la mobilitazione di una parte del loro surplus economico potenziale”. Surplus che naturalmente prima e dopo la guerra rimase irrealizzato e irrealizzabile: “nessuno può calcolare i vantaggi che la società avrebbe potuto realizzare se l’energia, la capacità di lavoro, il genio creativo di milioni di disoccupati fossero stati utilizzati per scopi produttivi” (Baran).

Al fenomeno della disoccupazione va collegato quello più allarmante della sottoccupazione: si può dire anzi che ai nostri giorni quest’ultima è la vera triste e sconcertante piaga del nostro Paese. Non è difficile immaginare a quale spreco di energie e di intelligenze tutto ciò porti, perché ognuno di noi ha sotto gli occhi lo spettacolo degradante di titoli accademici e professionali inutilizzati e inutilizzabili.

SPERPERO E IRRAZIONALITA’ DELLA ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA

Questo aspetto, comunque, del problema si inquadra probabilmente nella più generale constatazione dello sperpero e della irrazionalità dell’organizzazione produttiva, che costituisce il terzo grave ostacolo alla realizzazione del surplus economico potenziale. Pensiamo, per semplificare le cose, alle infinite imprese, piccole e pericolanti, la cui esistenza impedisce il raggiungimento di rilevanti economie di dimensione: una miriade di prodotti, tutti sostanzialmente uguali, invadono il mercato differenziati solo da un’etichetta, da un   marchio, da un particolare tipo di confezione. “Sia che guardiamo alle automobili e agli altri beni durevoli di consumo, come frigoriferi, stufe, elettrodomestici e simili, sia che pensiamo   a   prodotti come saponi, dentifrici, stoffe, scarpe o generi alimentari, è indubbio che la standardizzazione e la produzione in serie potrebbero notevolmente abbassare il loro costo unitario di produzione” (Baran).

Accanto alle piccole imprese, vi sono i grossi monopoli, in posizione di privilegio e predominio; insensibili alle leggi del mercato; disinteressati alla riduzione massima dei costi e al miglioramento continuo aziendale; diretti da gente retribuita con cifre astronomiche indi­ pendenti da una loro effettiva e fruttuosa partecipazione alla produzione. Pensiamo inoltre alla strumentalizzazione della ricerca scientifica operata dalle grandi imprese. L’ingegno e la cultura di scienziati di valore indiscusso vengono mortificati dal controllo asfissiante di imprese le quali più che all’effettivo progresso della scienza guardano costantemente ed infaticabilmente a quello che può ben dirsi la stella polare del sistema capitalistico: il profitto. “Talune indagini hanno rilevato che quando la Du Pont era riuscita a preparare un pigmento capace di essere impiegato e nell’industria delle vernici e in quella tessile, il direttore di uno dei suoi laboratori di ricerca scriveva che bisognava lavorare per scoprire una sostanza contaminante che rendesse i colori Monastra inutilizzabili per l’industria tessile, senza privarli delle qualità utili per l’industria delle vernici. Conosciamo gli sforzi fatti da Rohm e Hass per scoprire una sostanza capace di rendere il metil-metacrilato utilizzabile commercialmente come mastice, ma inutilizzabile per gli usi odontoiatrici. Conosciamo gli sforzi eroici compiuti dai laboratori di ricerca della General Electric per abbreviare la durata delle batterie delle lampade tascabili, ecc” (W. Adams).

Non estraneo a questo fenomeno è l’asservimento quasi totale dei cosiddetti letterati al prepotere dei grandi complessi industriali: fama, onori, premi, stipendi, dipendono più dal benvolere di mecenati ignoranti che dal valore effettivo delle opere; sappiamo l’utilità fondamentale dell’arte per la società, quando essa sia mezzo e causa di riflessioni critiche sulla condizione umana, onde possiamo comprendere quanto la società perde per l’ottuso asservimento delle menti migliori al volere capriccioso e materialistico di miliardari benpensanti. Né ci si deve dimenticare del “patrimonio potenziale imponderabile, ma forse più prezioso, che le imprese monopolistiche stanno sistematicamente dilapidando: il materiale umano preso nelle spire degradanti, corruttrici e storditrici dei grandi imperi industriali; l’uomo comune il cui interno sviluppo viene tarpato e spezzato sotto l’urto continuo della produzione, della propaganda e delle campagne di vendita della grande industria” (Baran).

Pensiamo alla recente campagna pubblicitaria per la immissione sul mercato di una nuova utilitaria: campagna assurda e mortificante, capillare chiassosa e grossolana: urtante; pensiamo alle condizioni di vita di migliaia di famiglie concentrate in palazzoni senz’anima alla periferia delle città: veri campi di concentramento dove il minimo che può accadere è di vivere costantemente sospesi tra la pazzia e l’incoscienza.

L’ECCESSO DI CONSUMO

Quarto ed ultimo ostacolo alla realizzazione del surplus potenziale è l’eccesso di consumo. Concetto naturalmente in stretta relazione con quello di consumo indispensabile o essenziale. Per un Paese non ancora sufficientemente progredito, eccessivo sarà il consumo che superi il bisogno irrinunziabile di alloggio, vitto, vestiario ecc. Ad un diverso livello, ma ugualmente determinabile sarà il consumo essenziale nei Paesi progrediti. La scienza ci insegna che anche qui la sovranità del consumatore è un mito pericoloso che volge al tramonto, ineluttabilmente.

Tutto questo abbiamo detto perché i tentativi furbi o maldestri di molti “sicofanti subalterni della economia politica” di sottovalutare la portata della presente crisi economica del Paese o di individuarne le cause in modo unilaterale, classista, impongono ai lavoratori di riprendere fiato, di ribadire che il momento contingente non è che una fase della tortuosa e confusa vita del capitalismo, contraddittorio e irrazionale. La battaglia dei lavoratori non può venir pertanto frenata da presunte corresponsabilità passate e presenti in previsione di un futuro di benessere sempre maggiore.

Perché i lavoratori sanno quanto sia effimera l’illusione di un costante progresso sociale, dal momento che gli strumenti di cui ci si è serviti finora a tal fine non hanno alcun rapporto coi loro effettivi interessi.

Ribadire tutto ciò significa, questo è chiaro, porsi al di fuori dell’ordinamento sociale esistente, disancorarsi dai suoi valori, dalla sua intelligenza pratica, dalle sue verità assiomatiche. La distinzione che abbiamo fatto tra lavoro produttivo e improduttivo, tra consumo essenziale, più in generale la distinzione tra surplus effettivo e potenziale, son cose che ripugnano alla scienza economica borghese. Naturalmente. Essa ha i suoi valori: è col metro di questi che valuta il progresso, il benessere o meno del Paese. Alla luce di quei valori le nostre distinzioni non hanno fondamento e utilità. “Cosa penseremmo se dovessimo giudicare il contributo dell’omicidio al benessere, in base alle norme di comportamento vigente in una società di cannibali? Il meglio che si può ottenere per questa via è un giudizio sulla coerenza del comportamento dei cannibali con le loro stesse norme e regolamentazioni cannibalistiche.

Questo genere di ricerca può essere utile per uno sforzo inteso ad individuare le norme necessarie per la preservazione e il miglior funzionamento della società cannibalistica. Ma che si può ricavare da una tale ricerca, in termini di benessere umano? [...] Tutto quello che si può stabilire è che la prassi della società cannibalistica corrisponde più o meno pienamente ai principi sviluppati da quella società. Non abbiamo detto nulla circa la validità o la razionalità di quegli stessi principi, né circa il loro rapporto con il benessere umano” (Baran).

L’UOMO DEL SOTTOSUOLO

Il fatto è che al principio mitico del consumatore sovrano, vero signore del mercato, i tempi impongono la sostituzione di quello opposto di ragione obbiettiva, unico mezzo di analisi e valutazione delle condizioni di benessere della società. Alla luce di questo concetto si giustificano le distinzioni da noi operate, perché si instaura nello studio dei fatti economici un criterio di ragione; alla luce di questo concetto lo studio dei singoli momenti della storia economica del Paese e del mondo perde la sua frammentarietà ed acquista carattere unitario e valore generale. Consente, questo importa di più a chi combatte la battaglia dei lavoratori, di guardare all’avvenire senza terrori e senza ingannevoli illusioni. Consente la vittoria contro tutte le “furie della proprietà privata”, non solo, ma anche sull’ “uomo del sottosuolo” che odia la ragione e vi vomita sopra. E’ quest'uomo del sottosuolo, rozzo e diffidente, che la fantasia sorprendente della scienza borghese aveva identificato col consumatore sovrano del mercato, arbitro e artefice del progresso; quest’uomo del sottosuolo, disperato e inutile, privato dai mille agenti dell’ideologia capitalistica di ogni barlume di intelligenza!

Uno stratagemma perfido e disarmante ha fatto e fa di quel sottoproletario impotente l’apparente attore della storia. Ma le forme ingannevoli dell’ideologia capitalistica stanno cadendo ad una ad una. I lavoratori capiscono oggi più che mai che “il lavoro produce certo cose meravigliose per i ricchi, ma per l’operaio catapecchie. Produce la bellezza ma per l’operaio sofferenza. Produce cose spirituali ma per l’operaio stupidità e cretinismo”.

La scienza economica ci ha aiutato a capire e a far capire tutto questo: la via verso una società costruita secondo ragione, senza sprechi e contrattempi, è aperta; l’uomo del sottosuolo è morto.

 

 

Ultimo aggiornamento Domenica 29 Novembre 2020 11:11
 
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