CONVERSAZIONI SU IGNAZIO SILONE - 2 Stampa
Scritto da Redazione   
Venerdì 25 Febbraio 2011 17:19

Pubblichiamo il secondo di una serie di dialoghi di Sudcritica con testimoni e protagonisti della storia del Novecento.
Temi e questioni di oggi.

Silone1

Mario Dilio intervista Nicola Magrone

AL “BAR SILONE

 

Mario DILIO, Direttore della rivista IPOTESI - Con la formula cooperativa, voi avete fatto la rivista «dall'INTERNO», oggi SUDCRITICA, una rivista che ha come sotto­titolo: «documentazione e dibattito su istituzioni e società». Che cosa significa «documentazione e dibattito» sulle istituzioni e sulla società d'oggi?

 

Nicola Magrone - Giustamente tu rilevi che la rivista sottolinea, nel suo “sottotitolo”, il suo obiettivo di «documentare», appunto, e di discutere il rapporto tra istituzioni e società. Insomma, la rivista discute il problema dello Stato, in ogni sua articolazione data; e lo discute, docu­mentandone i termini di volta in volta nel modo più puntuale e “leggibile” possibile. Non solo. Quel problema non è visto “in sè” bensì nel rapporto che inevitabilmente c'è tra le istituzioni e quella che si suole definire società civile: l' insieme degli individui, dei “soggetti” politico-sociali, dei movimenti che, tutti insieme, fanno la società. E ancora: il punto di osservazione non è, per così dire, equidistante tra i due termini del confronto, o dello scontro; la nostra postazione è dentro alle istituzioni: di lì guardiamo le cose, le cose viste di lì documentiamo e discutiamo. Appunto: «dall'interno».

Tu ben capisci che la cosa non è né facile né semplice né indolore. Si tratta in definitiva di violare molte chiusure corporative e un'infinità di comode “separatezze”. Solo a mo' di esempio, pensa all'istituzione giudiziaria, difficilmente penetrabile e controllabile demo­craticamente da un'opinione pubblica paradossalmente sempre più “informata” e sempre meno documentata. La sentenza di un giudice viene conosciuta dall'opinione pubblica nella essenzialità del suo “dispositivo”: Tizio è stato condannato, quindi è colpevole; Caio è stato assolto, quindi è innocente. Ma come si fa, però, a “giudicare il giudizio”? a valu­tare (e questo è propriamente un diritto di ciascuno di noi) se quella sentenza è stata o no una sentenza giusta? Non basta, insomma, che ciascuno di noi sappia (quando gli si con­sente di sapere) l'“esito”; ciascuno di noi ha il diritto di sapere perché la decisione fu quella e non un'altra, quali furono le argomentazioni del giudice, di che cosa quelle argo­mentazioni han tenuto conto, di che cosa no.

E questo vale naturalmente per ogni altra istituzione. Con i tempi che correvano nel 1979, quando costituimmo la cooperativa editrice e fondammo la rivista, ma, se mi consenti, an­che se non di più con i tempi che corrono, una cosa pensata e fatta con queste prospet­tive, e stando e lavorando dentro alle istituzioni in varia misura rappresentandovi ciascuno al suo livello “lo Stato” nelle sue molteplici articolazioni, fu ed è rivoluzionaria come ri­voluzionario è ogni tentativo democratico di aprire alla legittima curiosità ed al legittimo controllo del cittadino le stanze difficilmente accessibili dei “palazzi”.

 

Si spiega così la partecipazione alla cooperativa editrice e la collaborazione alla rivista di tanti magistrati, giornalisti, avvocati, medici, sociologi...

 

Sì. All'inizio, eravamo in maggior numero magistrati. Poi, si avvicinarono alla rivista (ma molti anche se ne allontanarono come è giusto che accada ad iniziative che non danno alcun “utile”) moltissime persone impegnate nelle più diverse istituzioni dello Stato e però anche operai, studenti e così via.

Tutti accomunava la filosofia complessiva dentro alla quale ci si era mossi: documentare e discutere ogni potere costituito, nessuno escluso.

Pensa, per farti ancora un esempio tra i più vistosi, alla partecipazione a questa nostra ini­ziativa degli psichiatri: soggetti che portano in sé e con sé un potere terribile. Se uno psi­chiatra decide che sei pazzo, questa croce non te la toglie di dosso nessuno per tutta la tua vita. Non a caso, le società autoritarie e repressive han fatto sempre e fanno larghissimo uso della “consulenza” di questo tipo di specialisti soprattutto quando l'obiettivo è stato ed è quello di eliminare presenze critiche non cooptabili con le blandizie del potere. Molti psi­chiatri, dunque, hanno collaborato alla nostra rivista “contro” questo tradizionale loro ruolo e mettendosi invece dalla parte dell'individuo e dei suoi diritti. Una scelta, anche per loro, non facile né semplice né indolore.

 

Nella stessa prospettiva della rivista «dall'INTERNO», la cooperativa editrice «dall'INTERNO» ha pubblicato una serie di libri, molti dei quali documentano e discu­tono alcuni dei fatti più importanti degli ultimi trent'anni. Penso, per esempio, ai volumi sul «processo di piazza Fontana».

 

Ed infatti, accanto alla rivista «dall'INTERNO» la cooperativa pubblica una collana di libri che abbiamo intitolata «CRONACHE DALL'INTERNO». La collana ha costituito e costituisce momenti di più approfondita e documentata riflessione su specifici problemi o accadimenti. Il “taglio” è naturalmente diverso: la rivista non può ovviamente soffermarsi quanto un libro su singole questioni. Tanto questo è vero che la rivista “dall'INTERNO» proprio dal prossimo numero, il 105-106, del quale penso tu vorrai sapere qualcosa per la sua straordinaria singolarità, assumerà la testata «SUDCRITICA»; dove «sud» non sta semplicisticamente per “sud d'Italia” ma per i “sud” del mondo e delle società; “critica” ri­badisce il taglio di fondo di tutta la nostra iniziativa. «Sudcritica» costituirà la necessaria continuazione dell'esperienza della rivista «dall'INTERNO» ma accentuerà (ne continuerà finanche la numerazione) le caratteristiche sue proprie; cercherà di cogliere il segno dei tempi e dei nuovi bisogni. Ne parleremo nel prossimo numero e lì cercheremo di chiarire le ragioni del cambiamento o meglio: dell' aggiornamento della testata.

Nella collana «cronache dall' interno», come tu ricordavi, abbiamo pubblicato una serie di libri.

Vorrei ricordarti, prima dei volumi sul “processo di piazza Fontana”, il libro «SEI MESI DI LIBERTA'. Diritti dell'individuo e ragioni della collettività-stato: le tracce di un con­flitto irrisolto nelle prime decisioni del “tribunale della libertà” di Bari».

Pubblicammo in quel volume tutte le decisioni del “tribunale della libertà” di Bari nei primi sei mesi dalla sua istituzione.

Ricorderai che l'introduzione nel nostro ordinamento processuale penale del “tribunale della libertà” costituì un momento di altissimo significato democratico: si trattava di co­minciare a limitare e comunque a porre sotto controllo (nel senso propriamente giurisdi­zionale) il potere di cattura dei pubblici ministeri e dei giudici istruttori e il loro potere di sequestro. Non fu una cosa da niente se pensi all'ordinamento qual era (ed eravamo nell'82): il cittadino ebbe la possibilità di ricorrere immediatamente al tribunale contro l'ordine o il mandato di cattura emesso nei suoi confronti o contro il decreto o l'ordinanza di sequestro di un suo bene o di un suo documento. Questo significò la necessità per i magistrati e per i giudici di rivedere tutto un sistema di valori e culturale che ne aveva fatto - specie negli anni terribili dell'“emergenza” - “guardiani” in armi in difesa dello Stato e della società, per la verità più dello Stato che della società.

Le cose, poi, sono radicalmente cambiate, ed io dico in meglio. Siamo ormai a quasi due anni di vita del nuovo codice di procedura penale che, a dispetto della retorica disfattista, a me pare, e lo dico non o non solo per motivi teorici o genericamente politici bensì per l' esperienza ventennale che ho del vecchio e del nuovo  sistema processuale, un patrimo­nio che solo per miopia o per mera stoltezza o per cinismo statolatrico si può tentare di sottovalutare o addirittura di buttare a mare.

Portammo il libro in dibattiti pubblici a tutti i livelli e discutemmo di tutto.

Nessuno ha nemmeno tentato, da allora, anche solo di imitare quella iniziativa che resta ormai ben collocata nella storia della pubblicistica non solo giuridica ma più ampiamente culturale del nostro paese.

Non fu una cosa indolore. Cominciarono da allora, insieme ad un quadro di complessivo consenso, i primi tentativi di perseguitarci disciplinarmente. Come sai, non c'è niente di più eversivo della libertà di documentazione, di informazione e di critica.

Pubblicammo, in due volumi, «DIE-CI ANNI DI PIOMBO SUL PROCESSO PENALE. La stabile emergenza». Vi ricostruimmo, istituto per istituto, tutti i guasti provocati dalla cosiddetta legislazione dell' emergenza che seguì, accompagnò, a volte addirittura prece­dette, gli anni del terrorismo. Si diceva che il terrorismo mirò diritto “al cuore dello Stato”; non si può negare che questo accadde; ma spesso si nega o si finge di ignorare che lo Stato colse quel momento per un primo attacco, a sua volta, alle libertà democratiche scritte nella Costituzione repubblicana. Documentammo tutto questo con una puntigliosità che ancora oggi stupisce me stesso.

Pubblicammo «LA CITTA' DEI RAGAZZI»; vi si parlava della questione giovanile e del rapporto della cosiddetta criminalità minorile con la giustizia e soprattutto con le prassi giudiziarie.  Ricordo che una domanda di fondo accompagnava tutto il lavoro nostro: «dentro a un “dibattito giuridico”, una domanda per tutti, giudici compresi: ma sono dav­vero così cinici e violenti, come vengono ritenuti, questi giovani che “educhiamo” con il carcere? ».

Pubblicammo «FATTI TUOI. Cronaca di un omicidio negato». Il libro conteneva gli atti del processo per l'omicidio di Palmina Martinelli, la ragazzina che venne bruciata viva e che, alla fine del processo, venne “condannata” per calunnia, naturalmente (lo dico senza ironia che sarebbe fuori posto e senza senso) “alla memoria”. Di quella vicenda, di quel processo, di quel libro, ancora oggi non ho la voglia di parlare. Fu, quella, un'esperienza che segna la vita dell'uomo e del giudice e che resta come una macchia sinistra e di una tristezza infinita su tutto il sistema giudiziario italiano. Ricorderai che Palmina denunciò in punto di morte a me, che ero il pubblico ministero, ma prima ai medici, agli infermieri e a tutti quelli che le rivolsero qualche domanda, i suoi assassini. Alla fine, gli imputati fu­rono assolti e di lei si sentenziò che aveva mentito, che si era data fuoco da sola e che aveva accusato deliberatamente due giovani innocenti.

Anche per questo, naturalmente, subimmo, subii, una sorta di linciaggio ed un tentativo grossolano di procedimento disciplinare. Certo non fu questa “appendice” istituzionale e giornalistica a spaventarmi; mi spaventò la verifica “sul campo”, se ne avessi avuto biso­gno, dell' impossibilità di difendere in un' aula di giustizia una ragazzina bella, giovanis­sima, povera, senza diritti, carica di speranze ingenue.

La ricordo ridotta ad un piccolo tronco carbonizzato in un lettino del centro di rianimazione di Bari, assistita da medici e infermieri mossi da passione professionale ed umana indicibile; ricordo la sua flebile voce riecheggiare nell'aula della Corte di assise dopo che ero riuscito a farne ascoltare la regi­strazione. Penso che sbagliai a difenderla in quell'aula e a pretendere che fosse creduta e rispettata: fu letteralmente dilaniata da un apparato che guardava altrove e che non si ac­corse nemmeno di lei.

Tu hai ricordato il mio libro, in tre volumi, sulla strage di piazza Fontana e sul processo ventennale che ne seguì: «TI RICORDI DI PIAZZA FONTANA? Vent'anni di storia contemporanea dalle pagine di un processo». In quasi duemila pagine, vi si ripercorrono le incredibili ed infinite tappe del processo che ha segnato la storia dei nostri ultimi vent'anni. Il libro nacque da un' esigenza professionale, culturale, politica, antiretorica. Insomma: al cospetto di uomini politici e di giornali i quali, ad ogni assoluzione, grida­vano allo scandalo, si stracciavano le vesti, invocavano giustizia, ritenni, ritenemmo che bisognasse proprio andare a vedere che cosa era stato veramente accertato, che cosa no e perché no. E scoprimmo che su piazza Fontana non si era affatto saputo nulla o poco; si era saputo fin troppo: era questo “troppo” ad aver determinato l'esito del processo. Ci fu chi disse che lo Stato non può processare se stesso; non disse un'eresia nemmeno dal punto di vista propriamente giudiziario. La Commissione parlamentare di indagine sulle stragi, che ha preso le mosse nel suo lavoro proprio dalla strage di piazza Fontana e che ha utilizzato il nostro libro per il suo studio, è pervenuta alla stessa conclusione. Le impli­cazioni di apparati statali nella strage e nella conduzione del processo sono scritte negli atti giudiziari. Ma nessuno, quegli atti, voleva aprirli e leggerli. Li ho aperti, uno per uno, li ho letti, li ho fatti leggere.

Non chiedermi se me ne venne un altro tentativo di repressione disciplinare; ci fu. Ho avuto, però, la ventura di imbattermi nel ministro Vassalli ed in un Consiglio Superiore della Magistratura che seppero, entrambi, essere all'altezza, il primo della sua cultura e della sua probità, il secondo del suo ruolo di garanzia. Ma, al di sotto di loro, restò e resta una rete fittissima di piccoli o grandi congiurati contro la verità e la li­bertà di pensiero.

 

Ma questo lavoro tuo e dei tuoi collaboratori credi abbia, alla fine e per quanto intriso di passione civile, qualche incidenza sulle scelte politiche del potere?

 

Mi fai una domanda terribilmente semplice e insieme terribilmente difficile. E' un po' come se io chiedessi a mia volta a te perché tu, di là dalla tua professione, ti interessi, ti incuriosisci ancora, ti appassioni intorno alla vicenda umana e politica di Ignazio Silone. Dico di Silone, per andare alla ricerca che mi va impegnando ormai da tempo. Io credo che tu lo faccia, e stia qui a parlarne con me e ad interessarti della mia ricerca, perché la tua scelta non è neutrale o, peggio, del tutto casuale. Penso invece che tu testimoni, così, del tuo stare dalla parte di alcuni valori anzicché di altri. Insomma, se tu stessi nel coro di chi “tira” Silone da una parte o dall'altra, a suo uso e consumo, non verresti a parlarne con me e non mi chiederesti nulla di lui, tanto meno, ovviamente, di me e di questa mia attività culturale e pubblicistica del tutto volontaristica, fuori dal mercato, dentro soltanto al mio striminzito e sempre più esangue “tempo libero”.

Tanti sono quelli che non si affannano più, se mai si sono affannati, appresso ad interessi di questo tipo. Silone? Un comunista, un cattolico, un socialista, un socialdemocratico, un rivoluzionario, un marxista, un rin­negato. Ti metti in una qualsiasi di queste categorie e stai tranquillo. E tu, invece, ne vuoi discutere e, per giunta, ne vuoi discutere con me che non conto nulla e non “rappresento” nulla e nessuno.

Ecco: io non so rispondere alla tua domanda. Non so proprio quale possa essere la possibile “incidenza” del nostro lavoro di ricerca su qualcosa o su qual­cuno.

Ma anche tu, penso, non sapresti rispondermi se ti chiedessi a che cosa serve, dico praticamente, questo nostro discutere; e tuttavia vedo che non ti alzi e non te ne vai e sento che a me dispiacerebbe che tu ti alzassi e te ne andassi. “Serve”, “incide”, ha senso pratico anche questo? Io non lo so.

Sono però convinto che nulla di quel che accade è privo di senso e che le cose che hanno più senso sono quelle, proprio quelle, al cospetto delle quali la prima emozione che ti viene è di chiederti: ma a che serve? a chi gliene importa? E se no, staremmo tutti dentro ad un piccolissimo, piccolo, grande mercato, in vetrina o in deposito. Non credi?

Parliamo dunque di questa tua ricerca su Silone. Voi avete già pubblicato nella rivista «dall'INTERNO», e continuerete su SUDCRITICA, l'anticipazione di un capitolo, l'ottavo, di un libro di Ignazio Silone: «Il fascismo», inedito in Italia benché pubblicato in Svizzera nel 1934. Vi proponete di pub­blicare l'intero saggio.

 

Da dove nasce questo vostro interesse per Silone?

 

Contiamo di pubblicare l'intero saggio in cinque numeri monografici della rivista, nella sua nuova serie alla quale ho fatto cenno: «SUDCRITICA». Il primo numero lo stiamo “confezionando”. Clara Zagaria è impegnata nella traduzione dal tedesco che, come im­magini, non è cosa semplice; tanto più se pensi che il testo tedesco è a sua volta la tradu­zione dal manoscritto di Silone andato perduto. Insomma, un lavoro di ...restauro.

Il primo dei cinque numeri monografici ospiterà i primi tre capitoli del saggio di Silone. In più, vi troverai una conversazione mia e di Clara con il prof. Fabrizio Canfora: «Stalin, Trotsky, Togliatti, Silone. Le ragioni della storia, i torti dell' eresia. Ma un bambino ma­rionetta è di troppo»; ancora, il testo integrale del discorso di Ettore Gallo del 2 giugno 1991 al congresso dell'Anpi: «In difesa della costituzione...Ma era questa, compagni, la Repubblica che avevamo sognato?». Troverai una mia piccola introduzione che natural­mente non conta nulla ma che, forse, serve a chiarire fin dove è possibile i nostri intenti. Forse non sembra ma tutto si tiene. Il numero sta per uscire. Devi sapere che la rivista la facciamo noi, proprio noi, dalla ricerca alla composizione alla impaginazione alla spedi­zione, tutto. La mandiamo poi a chi ce la chiede, portandola all' ufficio postale.

 

Perché tutto questo vostro arrovellarvi, ora, su Silone?

 

Intanto, consentimi di dirti che far conoscere un testo di Silone che in Italia nessuno ha mai avuto la forza, il coraggio, la voglia o l' interesse di pubblicare è un obiettivo che ri­sponde già da sè alla tua domanda.

Ovviamente, non è tutto qui. Le cose che ci siamo dette finora credo abbiano in nuce un primo tentativo di spiegazione di questa mia, nostra, attenzione a Silone. Silone non è un personaggio “facile”, come sai. Egli non ha, per così dire, la compattezza definita di un Togliatti del quale tu puoi pensare tutto il male o tutto il bene possibile e riesci a spiegare perché. Possiamo, se credi, discuterne fra un po'. Preferisco, ora, confessarti una mia particolarissima ragione di “attaccamento” a Silone. Questa: in tutto il lavoro, politico e letterario, di Silone, nella vita sua stessa, il tema fondamentale a me è parso il rapporto tra l'individuo e l' organizzazione. La sua, penso, non è stata mai una scelta “a tavolino” o, se vuoi, “fatta sui libri”: il suo radicamento, la sua eresia, il suo approdo al cattolicesimo, al socialismo, al comunismo, al cristianesimo, non furono tappe tattiche, “pensate”, “studiate”, insomma di volta in volta “utili”. Non so se sbaglio, ma credo che l'intera esperienza di Silone sia segnata non tanto dalla sua adesione o dal suo distacco da precisi sistemi ideologici bensì da una permanente tensione propriamente etica. Tu ricorderai come Silone “spiega” il suo esser diventato comunista; ricorderai l'episodio della povera vecchietta aggredita, ridicolizzata e offesa dal grosso cane del signorotto di paese; e la gente unita in coro sghignazzante, solidale col signorotto, simpatizzante del cane; e il pro­cesso, e il pretore che assolve cane e padrone perché il giudice vuole le prove e il coro sghignazzante dinanzi a lui tace la verità e difende cane e padrone; e il pretore che conosce la verità storica ma deve “stare” a quella “processuale”. Vedi come si diventa comunisti! Insomma, chi difenderà mai la vecchietta dal cane ringhioso, dal padrone arrogante, dal coro sguaiato del popolo servile?

E tuttavia, il problema non è risolto “diventando comunisti”; non era risolto “stando” nella Chiesa; non sarà forse che non lo risolvi facendoti inghiottire da un'istituzione, da un' organizzazione?

E' propriamente questo, di Silone, che inchioda la mia attenzione, la mia intelligenza e la mia passione, per quelle che ho. Non credo, certo, che ciascun approdo e ciascun distacco non lascino segni e tracce; e così, ogni approdo successivo è ricco dei precedenti ed ogni eresia di dopo è carica e forte dell'eresia di prima. Non credi che all'origine di tutto stia una scelta propriamente etica, prima che politica? Come ci si ribella in difesa della vec­chietta? Basta l'individuo? Bisogna che si scovino le coscienze capaci di ribellione, e così magari le trovi e ti “organizzi” con loro. All'origine era la tua coscienza, poi fu una co­scienza collettiva. Ma il fatto è che la “coscienza collettiva” finisce col diventare altro da te, e pretende di guidare e orientare e invita al realismo; la tua coscienza tira da una parte, altre vecchiette, altri cani al guinzaglio, altri padroni subiscono intanto e aggrediscono, e diri­gono. L'organizzazione “seleziona”, mette in ordine, sacrifica quel che va sacrificato; il “fine” del “bene collettivo” annienta il gesto individuale, la ribellione; la liberazione sarà di tutti o di nessuno e perché sia di tutti bisogna che non ci si attardi su altre vecchiette in la­crime, si lascino perdere aggressivi cani al guinzaglio e padroni impettiti e cori sghignaz­zanti di servi miserabili.

Può finire, dunque, che proprio lì anneghino le ragioni della tua scelta di campo, dentro all'organizzazione della “coscienza collettiva”, e che tu finisca con il dover “sorvolare” su cani e vecchiette, su servi e padroni, in attesa della “parola d'ordine” su questa terra o del “regno dei cieli” nell'altro mondo.

 

Il comunista bulgaro Kolaroff, che era stato incaricato da Stalin di spiegare a Silone perché “doveva” condannare, senza conoscerlo, il documento di Trotsky nella riunione che poi determinò la rottura con il partito comunista, dice ad un certo momento ai delegati ita­liani: «voi non avete capito che cos'è la politica»; e poi spiega che la politica è un gioco di potere. Questa frase dello stalinista Kolaroff, delegato bulgaro a quel soviet supremo, e la risposta di Silone: «ma allora io dovrei spiegarvi perché ho lottato e lotto contro il fasci­smo», si spiegano con queste tue considerazioni sulla struttura che si sovrappone all'uomo?

 

Il problema del rapporto con il partito comunista è certamente centrale nella vita e nelle opere di Silone.

Ma tu non dimentichi certamente che la prima “eresia” di Silone fu dalla Chiesa cattolica. Il suo approdo al comunismo fu complesso, la sua vita di comunista travagliata, sofferta, a volte finanche obiettivamente ambigua. Tanto, da “legittimare”, dal punto di vista stret­tamente storico-documentale, il giudizio severissimo di Togliatti e dei comunisti. Paolo Spriano è il classico esempio di storico che guarda le carte e ricostruisce la verità ufficiale della storia. L'accusa di trotskismo mossa dai comunisti a Silone non è senza alcun fon­damento, appunto, documentale. I rapporti di Silone con Trotsky non furono lineari, nell' accezione politico-burocratica del termine. Ma nulla in Silone fu “lineare” in quell'accezione; nessun suo rapporto, nemmeno con i suoi compagni più vicini, fu “lineare” in quel senso. Figuriamoci i suoi rapporti con la chiesa e con i preti, che pure af­follano, e spesso come “eroi positivi”, umanamente “positivi”, le sue opere.

Il problema è, a mio parere, che lo stesso percorso esistenziale, politico, culturale di Si­lone non fu “lineare” in quel senso. Silone non si oppose a Stalin, e così a Togliatti, senza esser più comunista; anzi; la sua tragedia fu che lo fece “da comunista”. In verità, Silone non ha mai smesso di essere comunista; il limite ultimo del suo orizzonte politico stette nella precisa convinzione e previsione che lo scontro finale sarebbe stato tra «comunisti» ed «ex comunisti». Vedi quel che accade, oggi, nei paesi del socialismo reale?

 

Molti, anche in letteratura, hanno giudicato Silone un utopista. Si è detto: «un cristiano senza chiesa, un socialista senza partito». Per te?

 

Ernesto Balducci, in una conversazione tenuta con noi e che pubblicheremo nel se­condo numero monografico della rivista dedicato a Silone, di Silone ci ha parlato come di un “uomo inedito”. Un “uomo edito” fu invece Togliatti. E voleva dire, e ci disse, che Silone anticipava di un cinquantennio i tempi. Uno sconfitto, certo; perciò difficile da comprendere a fondo nel farsi degli accadimenti che lo videro testimone.

Certo, possiamo pure dire “utopista”. Da Celestino V a Pisacane, le sue opere sono se­gnate dalla presenza di figure che definirei tragicamente messianiche.

Il fatto è che noi diciamo dell'utopia come di un limite dell'azione o, peggio, di un falli­mento dell'azione per limiti che starebbero già nell' ideazione, insomma nel pensiero stesso. E non credo che diciamo una cosa corretta. Vedi, io proprio non so in quanta parte la storia, la vita delle società e degli individui sono debitrici del realismo o dell' utopia. Uno sfrenato “realismo”, capace di sacrificare tutto (tutti?) sull'altare delle utilità contin­genti, sia pure nel perseguimento di un “giusto obiettivo”, può risolversi davvero in un'utopia tragicamente negativa. Non è una sinistra utopia quella del boia che spenda la sua vita nell'attesa di una buona messe di condanne a morte?      

 

Alla luce di tutte queste cose che mi dici, come pensi si sarebbe trovato Silone in questi nostri anni di sfrenato consumismo? Come si sarebbe trovato nella lotta politica dei nostri tempi, nella politica come la si fa oggi nei partiti di sinistra, di destra, di centro?

 

Non credo proprio, intanto, che si possa anche solo ipotizzare un rapporto di Silone con  i partiti, come tu dici, di destra o di centro o anche solo con la cultura conservatrice o, peggio, reazionaria. Silone appartiene alla storia della sinistra; non riesco ad immagi­narlo altrove.

Detto questo, credo di poter dire che Silone avrebbe continuato a costituire uno scandalo umano e politico dentro alla sinistra italiana ed europea e che perciò avrebbe continuato ad esser guardato con “attento distacco” dagli apparati che contano. E certo, non sono più i tempi dei cafoni d'Abruzzo...

 

...in tre suoi violenti articoli, scritti sull'Avanti! nel 1917, Silone si scaglia contro le malversazioni, le truffe, le case negate alla povera gente del suo paese dopo il terremoto del 1915 quando perse la madre. Non è accaduto tutto questo anche oggi in Irpinia?

 

Certo che è accaduto tutto questo, e non solo in Irpinia. Per la verità, è accaduto di peggio. Non so se tu hai avuto occasione di passare per Pescìna, il paese di Silone, negli ultimi tempi. Guarda che lì le case diroccate e abbandonate ci sono ancora, proprio quelle del terremoto del '15. Vi è il paese “nuovo”: filari di caseggiati tutti uguali e senza storia sono il segno della “modernità”. Questa sorta di modernità povera tenta disperatamente di annodarsi ad un' identità propria intitolando il “corso” a “Fontamara”, sistemando al centro del paese una pasticceria “Fontamara” ed un bar “Silone”. Ho chiesto personalmente alla gentilissima padrona del bar se per avventura ...il suo cognome non fosse Silone e lei mi ha risposto di non chiamarsi Silone e che forse Silone si chiamava il precedente proprieta­rio ma non ne era del tutto sicura...

Io sento per questo una tristezza senza fine. Non ce l'ho certo con la padrona del bar che ha sentito parlare di Silone e lo ha incarnato in un commerciante del suo paese. Sono con­vinto che una responsabilità grandissima per questa ossificazione e mercificazione (per quanto a livelli modestissimi) di personaggi come Silone sia di quanti, di noi, mancano al dovere del coraggio nei confronti loro e lasciano correre tutto per pigrizia, per opportuni­smo, per disattenzione, per indolenza: dal “bar Silone” alla sezione “Silone” del Psdi, alla freccia gialla per i turisti che guidano all'albergo del paese ed alla tomba di Silone, in alto sul paese, scarnita e neutra, sovrastata da una croce che fa più paura di quanto non dia speranza.

Mi ha detto un operaio di Pescìna che lì quasi ogni anno convengono molti ono­revoli di tutti i partiti e molti professori che discutono di tutto; e ciascuno commemora Silone, un grande uomo, e se ne va. Già, ma in che cosa fu precisamente un “grande uomo”? E lo fu per tutti? E perché tutti lo commemorano di tanto in tanto, non una critica, non un'ingiuria, niente insomma dell' armamentario che accompagnò la sua vita, e tuttavia svuotato di storia, reso indolore, disossato ed innocuo?

Tu mi chiedi che cosa sarebbe stato, oggi, Silone; che cosa avrebbe fatto. Non so. Forse avrebbe legato la sua vita ed il suo destino a tutti i sud del mondo, avrebbe raccolto e rac­contato le storie e le vite dei nuovi “cafoni” del mondo... Non so... Ma non credo sia im­portante; è certo che non lo avremmo trovato a “dettar legge” nemmeno al comando di un drappello o di un esercito di rivoluzionari...

 

Siamo al punto: perché, secondo te, la fama di Silone volò in tutto il mondo, le sue opere furono lette in decine di paesi anche lontanissimi mentre in Italia Silone è stato so­stanzialmente ignorato?

 

Io ho una certa idea su questo. Intanto, non credo che in Italia Silone non sia conosciuto e non sia stato letto. Se mi per­metti, tutt'altro. E' vero che le sue opere girarono il mondo e non si fermarono in Italia; è vero. Ma non è stato sempre così. Io conosco un'infinità di gente che ha letto Silone.

Il fatto è, piuttosto, che c'è da noi una sovrabbondanza molto sospetta di consensi e di apprezzamenti per l'uomo e per la sua opera politica e letteraria. Se ti guardi attorno e chiedi un po' in giro, t'accorgi che è convinzione ormai comune, per qualche aspetto addi­rittura di massa, che Silone è un uomo a cui va resa giustizia. Perché gli va resa giu­stizia è più difficile che ti si dica perché a dirlo e a pensarci davvero su si finisce col dare torto a se stessi per quello che si è stati e per quello che si è. Non è facile per un cattolico rendere giustizia a Silone e restare cattolico, per un comunista “riabilitare” Silone e restare comunista, per un socialista andare un po' oltre il formale omaggio al “socialista senza partito”.

 

Ma questo non dipende anche dal fatto che negli ultimi trent'anni ha dominato la cul­tura comunista, quella che lo ha inchiodato al suo ruolo di “rinnegato”?

 

Secondo me questo è in gran parte vero. Vedi, io mi chiedo sinceramente che cosa pensa di Silone Occhetto e che cosa ne pensa Garavini. Spero di poterglielo chiedere. Se non costerà troppa fatica a loro scendere fino a me e a me salire fino a loro, tenterò di chiederglielo e di discutere con loro e di pubblicare in uno dei cinque numeri di “Sudcritica” su Silone la discussione con loro. Come ho già fatto con Canfora, come ho già fatto con Balducci, che hanno discusso con me e con Clara Zagaria con fraterna sim­patia. Vorrei, vorremmo discutere francamente con i comunisti di Silone, con gli ex co­munisti di Silone. Se mi permetti, vorrei discuterne anche con Craxi.

Mi sono convinto che la diffidenza nei confronti di Silone è più grande di ogni formale omaggio. L'incontro onesto con lui finisce col diventare una trappola per chiunque gli si accosti.

Vedi, una cosa è discutere delle grandi ideologie, altra stabilire quel che va fatto qui ed ora, una cosa discutere delle nuove povertà, altra star dalla parte dei nuovi poveri, una cosa denunciare l'emarginazione sociale, altra parteggiare per gli emarginati; una cosa sono le categorie politiche e culturali, altra gli interlocutori in carne ed ossa con i quali fare i conti in prima persona. E' tutta qui la “testimonianza” di Silone, per il quale la distinzione tra deboli e potenti, ricchi e poveri, popolo e oligarchie è netta e senza scampo; ed al quale non basta certo stare dentro ad un'organizzazione per salvarsi l' anima e la pelle.

Come sai, Silone non è stato certo un ideologo; egli stesso “si vive” come testimone, nell'azione politica e negli scritti, i secondi divenuti la continuazione forse anche necessi­tata della prima; e non è stato neanche uno scrittore di grande eleganza, per così dire, lette­raria. Forse solo ne «La scuola dei dittatori» (saggio nel quale confluirono moltissime cose già scritte ne «Il fascismo» che noi stiamo per pubblicare) v'è qualcosa che somiglia, ma molto alla lontana, ad una ricerca puramente “ideologica”. Lo dico con molta appros­simazione, naturalmente. Il resto, di Silone, non teorizza, racconta; non “sistema”, scava nella terra e sconvolge le zolle; non rassicura, inquieta. E tutto è detto e fatto con sempli­cità e allarmante modestia.

Nell'ultimo numero della sua rivista, «TEMPO PRESENTE» del dicembre 1968, Silone si commiata dai lettori con un breve articolo: «Temi per un decennio». Te ne ricordo l'ultima parte, che mi pare memorabile soprattutto per la conclusione:

 

«[...] Vi concedo che in una situazione nuova un prudente empirismo sia preferibile al dogmatismo, e posso anche capire che, per le istituzioni autoritarie fondate sull' infallibilità, sia difficile rinnegare pubblicamente il credo di ieri. Allo stesso modo come nel Concilio Vaticano II perfino i prelati più audaci hanno preferito ignorare l'esistenza del Sillabo, così nei partiti comunisti nessuno più cita le Ventuno condizioni che Lenin impose per la loro affiliazione alla terza Internazionale. Da parecchio tempo non si sente più parlare di quelle severe definizioni del perfetto comunista. Tanto meglio. Sia però lecito domandarci se il Sillabo e le ventuno condizioni sono veramente superati. In pratica, e per ora, credo di sì; tuttavia la mancanza di una loro esplicita critica non mi pare scevra d'inconvenienti. Accennerò ai principali. Può darsi che nel seno della Chiesa e del Partito qualcuno serbi fede al vecchio catechi-smo. Anche tra le gerarchie e tra i notabili esso può esser considerato inattuale, ma non falso. Infine non è detto che l'antico fanati­smo, riposto nella naftalina dell'archivio, perda la sua virulenza. La confusione che ne ri­sulta è evidente. Penso che dovremmo discuterne. Inoltre...

A questo punto la luce viene interrotta e poi subito riaccesa, mentre una voce annunzia: “Si chiude”. La sala si vuota in fretta. Per strada un amico si avvicina [...] per dire: “sarebbero temi per un decennio”.

“Perché no?

C'è che il circolo ha ricevuto lo sfratto per la fine di questo mese

Potremmo continuare per strada [...]con quelli che ne hanno voglia».

 

Ecco. Tu credi che siano molti, ancora oggi, soprattutto oggi, a non temere il metodo della critica ad ogni forma di autoritarismo e ad ogni dogma? E soprattutto credi che siano in tanti, ancora oggi, soprattutto oggi, a non disarmare se un “contenitore organizzato” vien meno, foss'anche un circolo sfrattato? A me, lo ripeto, pare davvero memorabile la sem­plicità di Silone quando dice cose in realtà ben difficili da ripetere; e pare memorabile que­sta sua incrollabile fiducia nella capacità degli uomini a non fermare la storia, a non chiu­derla in tetri luoghi “deputati” alla discussione, ad uscire dal circolo sfrattato, dalla Chiesa istituzione, dal partito “pensante” per tutti, e ad irrompere per le vie. A me pare davvero memorabile, perché è nelle vie che si finirà con l'imbattersi nella vecchietta svillaneggiata, nel cane al guinzaglio del padrone, nel coro servile e sguaiato delle maggioranze, in dogmi e “statuti” tra i quali districarsi e con i quali mischiarsi per ri-uscire, non neutrali, alla li­bertà.    

 

Modugno, 15 giugno 1991

Ultimo aggiornamento Giovedì 30 Giugno 2011 17:32
 
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