=art.18 dello Statuto dei lavoratori. Contro gli equilibri di sottoccupazione= Stampa
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Scritto da Redazione   
Lunedì 29 Settembre 2014 11:44

lavoro

La disoccupazione va sconfitta percorrendo vie diverse. Sono le vie che conducono all’incremento consistente della domanda effettiva (di beni di consumo e di beni di investimento). Oggi la domanda effettiva è ferma: non può l’offerta e la produzione di beni e di servizi espandersi senza che ci sia una richiesta adeguata

 

di  Mino Magrone

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Sul Corriere della sera del 21 settembre scorso, Maurizio Ferrara ci spiegava perché il “sindacato ha torto nel battersi a favore del mantenimento dell’art. 18 visto anche come elemento equilibratore della parte più debole del mercato del lavoro.

Vi si legge: le riforme vanno fatte osservando i problemi concreti della società e non i semafori dell’ideologia. Appare più che chiaro che queste affermazioni possono essere, non senza ragione, ritorte contro l’editorialista del “Corriere. Il quale, forse inconsapevolmente, non si avvede che il delicatissimo argomento del mercato del lavoro ha rappresentato e rappresenta ancora oggi (e chissà per quanti decenni ancora) un tema cruciale sia dell’economia pre-keynesiana (classica e neoclassica) sia di quella keynesiana e post-keynesiana.

Mettiamo da parte i “semafori ideologici (ai quali Ferrara non si sottrae!) e tentiamo di vedere perché il ritorno ad una visione teorico-2art.18pratica di tipo classico del mercato del lavoro non garantisce la piena occupazione dei lavoratori ma realizza equilibri di sottoccupazione. Ma prima di analizzare le diverse visioni del mercato del lavoro è opportuno dire velocemente in che cosa consistono l’art. 18 e la proposta di riforma del governo Renzi.

L’art. 18 fa parte dello Statuto dei lavoratori approvato nel 1970. Disciplina i frequenti casi di licenziamento dei lavoratori senza giusta causa. E’ il giudice che può ordinare il “reintegro del lavoratore licenziato oppure l’indennizzo. La norma è valida (è applicabile) solo alle aziende con più di 15 dipendenti. Allo scopo di oltrepassare l’art. 18 il governo ha presentato un emendamento al ddl sul lavoro che, non prevedendo più l’art. 18, stabilisce per tutti i lavoratori neoassunti l’introduzione in caso di licenziamento di indennizzi proporzionali all’anzianità del lavoratore.

Dalla rapida descrizione dell’art. 18 e delle modifiche proposte, emerge con chiarezza che dal 1970 in Italia non è sopravvissuto un mercato del lavoro arcaico ed ingessato: si è potuto licenziare e si è licenziato frequentemente purché la causa provocante il licenziamento fosse giusta e non discriminatoria, politica, anti-sindacale o arbitraria e punitiva. Ora, per i nuovi assunti si vuole reintrodurre la libertà di licenziare anche senza giusta causa. E’ una conquista dei lavoratori che, con incredibile evidenza, i semafori ideologici della restaurazione consentono di mandare alle ortiche.

Nel suo editoriale, Ferrara ci avverte che le riforme vanno fatte osservando i problemi concreti della società. Non c’è nulla di più astratto e tendenzialmente ideologico delle affermazioni sul mercato del lavoro sostenute dalla teoria economica classica e neoclassica oggi, a livello scientifico, meno dominante.

In estrema sintesi gli economisti pre-keynesiani (classici) e post-keynesiani (neoclassici), a proposito del lavoro, danno questa centrale descrizione del suo funzionamento. Essi dicono che, in assenza di ostacoli, alla flessibilità dei salari (dovuti alla legislazione sociale o all’intervento dei sindacati) una economia di mercato è sempre in grado di assicurare spontaneamente la realizzazione del pieno impiego, cioè l’occupazione di tutti coloro che sono disposti a lavorare al salario reale vigente sul mercato salvo i lavoratori temporaneamente disoccupati per motivi “frizionali.

In definitiva essi sostengono che i disoccupati non volontari trovano sempre conveniente accettare o proporre riduzioni del saggio del salario monetario nel tentativo di ottenere un posto di lavoro. Sicché, continua così il loro ragionamento, la riduzione del salario monetario provoca per necessità la riduzione del salario reale e quindi l’aumento della domanda di lavoro e dell’occupazione fino all’equilibrio di pieno impiego.

3art.18L’egemonia dell’economia politica classica, se si esclude la potente riflessione critica del marxismo, è durata essenzialmente fino al 1936 quando un economista di Cambridge, J.M. Keynes, pubblicò la “teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta che ebbe un’enorme risonanza e fu accolta come una vera rivoluzione della impostazione teorica pratica della economia politica.

In generale il discorso keynesiano sui teorici classici dell’economia politica è fortemente critico e, a proposito del mercato del lavoro, Keynes è dell’avviso che essi siano o sembrino esperti di geometria euclidea in un mondo non euclideo. Scoprendo che nella realtà linee rette, apparentemente parallele, spesso si incontrano, rimproverano le linee di non mantenersi rette quando, invece, non vi è altro rimedio che quello di abbandonare l’assioma delle parallele e sviluppare una geometria non euclidea.

Anche il mercato del lavoro è non euclideo e perciò è difficile se non impossibile che in esso si realizzi una diminuzione proporzionale e simultanea del salario monetario di tutti i lavoratori. Il saggio del salario monetario è relativamente rigido verso il basso anche in presenza di disoccupazione. Per cui l’assioma secondo il quale i lavoratori disoccupati involontari trovano conveniente accettare o proporre una riduzione del salario monetario deve essere abbandonato. Di conseguenza deve essere pure abbandonata la tesi che una economia concorrenziale raggiunge spontaneamente l’equilibrio di pieno impiego. Al contrario la rigidità verso il basso del salario monetario apre la concreta possibilità (come noi in questi giorni e mesi ed anni stiamo verificando) che l’economia rimanga in una situazione di disoccupazione, nonostante la disponibilità dei lavoratori disoccupati ad accettare una riduzione del salario.

In conclusione, non è dando la libertà di licenziare senza giusta causa che si creano i presupposti della flessibilità verso il basso dei salari. I salari non scendono; sono rigidi verso il basso e, con ciò e perciò, inceppano tutto il meccanismo escogitato dalla economia classica per spiegare l’equilibrio di piena occupazione.

La disoccupazione va sconfitta percorrendo vie diverse. Sono le vie che conducono all’incremento consistente della domanda effettiva (quella, cioè, sia di beni di consumo sia di beni di investimento). Oggi la domanda effettiva è ferma: non può l’offerta e la produzione di beni e di servizi espandersi senza che ci sia una richiesta adeguata.

E’ sotto gli occhi di tutti il fatto sconcertante che rispetto all’offerta di denaro (prestiti a tasso quasi zero) da parte della Bce alle banche europee, solo una parte molto piccola della massa di denaro messa a disposizione dalla Banca centrale europea è stata utilizzata dalle banche. Le quali avrebbero potuto godere della differenza molto forte tra il tasso passivo da corrispondere alla Bce e quello attivo da riscuotere dai loro mutuatari e clienti. Le banche, salvo rare eccezioni, sono state quasi ferme. Perché? Ma per la ragione che l’economia è ferma, e le banche pensano che la loro offerta di denaro non troverà richieste per investimenti con un qualche rendimento accettabile.

Mario Draghi ha svolto bene il suo compito, ma non ha fatto i conti, come si suole dire, con il “cavallo che non beve più. Ora, che diart.18 tanto in tanto beve ancora, è necessaria la forte crescita della domanda effettiva di beni di consumo più beni di investimento, un piano di grandi e piccole opere infrastrutturali con il necessario intervento anche dello Stato.

Tutto ciò è ideologico? È tradire il rispetto della realtà sociale chiedere il mantenimento della possibilità del “reintegro nel posto di lavoro del lavoratore licenziato senza giusta causa? Non è, invece, ostinatamente ottocentesco e ante 1936 sostenere che tutto si aggiusta in equilibrio purché i salari siano flessibili verso il basso?

Ancora una breve riflessione sulla possibile lunga agonia della nostra economia. Il Censis segnala che la liquidità delle famiglie italiane è cresciuta di oltre 234 miliardi. Era di 975 nel 2007 (inizio della crisi) e di 1.209 miliardi di euro nel marzo di quest’anno. Il keynesiano “motivo precauzionale fa preferire la liquidità ai possibili investimenti e al consumo immediato. Quest’ultima (la liquidità non investita né consumata) è un’altra grandezza economica che spinge ancora più in fondo il prodotto interno lordo del nostro paese e accentua ancora di più la differenza tra risparmio e investimento. La teoria generale del 1936 ne mise in luce tutte le negative implicazioni e dimostrò che le variazioni del tasso di interesse nulla o poco potevano fare per creare l’equilibrio tra offerta e domanda del risparmio.

Non possiamo più attendere che il così detto mercato concorrenziale sviluppi le sue autonome forze endogene che conducano all’equilibrio di piena occupazione. Oggi viviamo drammaticamente “equilibri di sottoccupazione. Non abbiamo più tempo perché a lungo andare saremo tutti morti come più volte ammonì l’ormai inascoltato economista di Cambridge.

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Ultimo aggiornamento Martedì 30 Settembre 2014 09:26
 
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