=MA E' QUESTA LA REPUBBLICA CHE ABBIAMO SOGNATO?= Stampa
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Scritto da Redazione   
Lunedì 02 Giugno 2014 00:51
2 giugno. 68/o anniversario della Repubblica Italiana
 
bambinagrande
 
 
 
 Italia Giusta.
L’impegno per la difesa
e l’attuazione
della Costituzione italiana
continua e si rinnova
____________
 
 
 
 
 letture utili
 

I mali che affliggono lItalia non dipendono dalla Costituzione del 48, ma dagli intrighi di potere, dai tentativi golpisti, dallo stragismo impunito, dalle associazioni criminali coperte da oscure complicità, dalla corruzione dilagante, dallo spreco selvaggio e dall'appropriazione delle istituzioni da parte degli apparati di alcuni partiti”.

 
di Ettore Gallo *

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Cari amici, consentitemi una premessa prima di dar luogo alla celebrazione dell'anniversario della Repubblica. Innanzi tutto, vi chiedo scusa di questa mia voce chioccia ma da circa una settimana ho addosso una bronchite, anche con qualche linea di febbre e quindi vorrete indulgere. E poi, se me lo consentite, una precisazione: alcuni quotidiani, molto autorevoli, che io molto rispetto del resto, hanno pubblicato che io sarei venuto qui quale presidente della Corte Costituzionale a tenere una lezione. Beh, devo rettificare che non c'è niente di più erroneo di questo, perché intanto sono sicuro che quanto a Resistenza e a Repubblica i partigiani d'Italia non hanno bisogno delle lezioni di nessuno! E poi perché, compagni partigiani, io non vengo qui quale presidente della Corte Costituzionale, ma sono orgoglioso di venire qui come partigiano combattente, regolarmente delegato. E vengo soltanto, quindi, a conversare, a parlare qui fra voi e con voi di questa nostra Repubblica.
 
 
Autorità della Repubblica, che ci avete onorato della vostra presenza, compagni partigiane e partigiani, amici carissimi, io non so dove foste in quel lontano anno di grazia 1946, quando il giovane sole di giugno scaldava le chiome allora fiorenti dei nostri anni verdi. So, però, di certo che, dovunque voi foste, eravate sulle piazze delle ridenti contrade d'Italia ad attendere ansiosi, ma fiduciosi, il risultato del referendum istituzionale, nella cui campagna avevamo impegnato tutte le nostre forze.
E quando la roca voce della modesta radio di allora ebbe reso noto attraverso gli altoparlanti il fausto risultato, alto si levò dai nostri petti il grido che inneggiava alla Repubblica italiana. Che speranze, amici, che cori!, avrebbe detto il poeta di Recanati. Dalle gelide baite dei monti, dal fondo delle orribili celle di tortura, dai lager dello sterminio nazista la Resistenza, o almeno la sua stragrande maggioranza, aveva sognato quel giorno radioso in cui la sovranità sarebbe passata al popolo e il popolo, attraverso i suoi Costituenti, si sarebbe dato finalmente le istituzioni della libertà, dell'eguaglianza, della fraternità. E mentre il triste re di maggio lasciava dignitosamente il Quirinale io pensavo a quel gesto di fierezza e di ribellione che egli aveva osato davanti al pallido padre che fuggiva, ai generali che con lui si eclissavano, al governo e ai dignitari spauriti e smarriti che con il re se ne andavano. Alludo a quel giorno in cui, sceso dall'automobile, chiese al re di poter restare alla difesa di Roma e non gli fu concesso: era il 9 settembre del 1943. Non credo che il gesto solitario del rampollo avrebbe mai potuto riscattare l'intero destino di una dinastia che aveva consegnato il popolo italiano alla dittatura fascista; forse ha riscattato la sua personale dignità di uomo. Ma sulle nostalgie romantiche dei pochi che in quel giorno radioso dell'incipiente giugno '46 accompagnavano il commiato del re di maggio, io pensavo invece ai tanti compagni che quel giorno avevano sognato ma non avevano potuto vedere perché falciati in campo aperto, fucilati, impiccati, massacrati nelle prigioni e nei lager, pensavo alle migliaia d'italiani caduti sui fronti dell'inutile guerra o sacrificati, inermi e innocenti, nelle feroci stragi delle rappresaglie nazifasciste, pensavo alle distruzioni di ogni bene e di ogni benessere che bombardamenti e battaglie avevano portato sul suolo della patria, e al freddo, alla fame, al dramma di tante famiglie abbandonate ad un tragico destino.
E allora, nel suono gioioso delle campane, levando gli occhi alla felicità di quella luce radiosa, ci pareva davvero, compagni, davvero di poter gridare in quel giorno anche per conto dei compagni che non erano più tornati, gridare per i vivi e per i morti come fremente auspicio per gli anni dell'avvenire: Viva la Repubblica italiana!  
 
Ma era questa, compagni, la Repubblica che avevamo sognato e per la quale era stato versato il sangue della Resistenza?
Questa della mafia e della camorra? Questa della corruzione e del peculato nella pubblica amministrazione? Questa dei giochi di potere e dello stragismo impunito? Questa che la comunità europea vuol respingere ai margini per il suo enorme debito pubblico? Questa delle spaventose evasioni fiscali, che devono essere poi ripianate dall'ulteriore sacrificio di chi lavora e osserva il suo dovere di cittadino? Questa del preoccupante ritorno dell'inflazione che mortifica le scarse pensioni di chi ha lavorato per tutta una vita, e i salari e gli stipendi di coloro che, non essendo né corrotti né mafiosi, stentano e arrancano per congiungere un mese all'altro? Questa di alcuni partiti che hanno invaso l'area delle istituzioni al punto da menomarne la funzionalità, al punto da scoraggiare i cittadini, che spesso si allontanano dalle urne o vi immettono voti di disperazione e di sfiducia?
Eppure, i deputati che il popolo della Resistenza aveva eletto alla Costituente avevano compiuto appieno il loro dovere.
Attraverso due anni e mezzo di fervido lavoro, di accesi dibattiti e anche di reciproche rinunzie alle rivendicazioni massimalistiche, avevano pazientemente tessuto la tela della Costituzione, la legge fondamentale dello Stato. In grazia del sincero e dignitoso compromesso delle tre grandi componenti dell'organizzazione politica italiana, che rappresentano anche i tre grandi movimenti spirituali e di pensiero del nostro paese (liberalismo, cattolicesimo e socialismo), la Costituzione aveva rifondato tutto ex novo. Era stato concordato un nuovo patto e aveva preso vita anche il compromesso delle classi sociali e il popolo si era dato quelle nuove istituzioni, prima impensabili, che riorganizzavano la società in strutture del tutto diverse. La caratteristica saliente di questo diverso modo d'essere della convivenza sociale fu contrassegnata dall'irradiarsi del metodo pattizio, della decisione collettiva che dall'interno della Costituzione raggiungeva le sedi istituzionali e sociali. Il conflitto tra le forze politiche si svolgeva così all'interno di una pluralità anche di forze sociali, culturali, economiche fra loro in competizione, che s'intersecavano, si alleavano, si contrastavano, in un viluppo tale che nessuna di loro era più in grado di prevalere sulle altre fino a diventare egemone ed assumere il predominio. Nasceva così la democrazia pluralista: da un disegno costituzionale che aveva dettato norme di principio e valori etici integranti un nuovo compiuto sistema degli assetti sociali e politici.
 
C'era, insomma, nella Costituzione tutto quanto bastava ad una giovane Repubblica nascente per intraprendere e percorrere un lungo cammino di ricostruzione laboriosa ed ordinata e per riprendere il posto che ad essa spettava fra le nazioni più civili e progredite, nel contesto dei principi di libertà, di uguaglianza e di solidarietà. Proprio quella che Kelsen chiamava la «rarefazione teorica della sovranità», vale a dire la sua frammentazione, nel senso che essa, appartenendo a tutto il popolo nel suo complesso, era ormai di tutti ma di nessuno in particolare, essendo predisposta ad impedire il ritorno di oligarchie o di personalità egemoni garentendo il popolo dalle tentazioni autoritarie dei leaders di turno.
Cos'è accaduto, invece? Che mentre nel leale dibattito del Palazzo le forze della Resistenza costruivano in reciproca buona fede le linee di un pacifico Stato democratico fondato sul lavoro, all'esterno, favorito dalla divisione dell'Europa fra i due blocchi contrapposti, e poi dalla vera e propria guerra fredda, riprendeva vigore il revanscismo degli sconfitti che si alleava alle forze conservatrici, quelle che mai avevano abbandonato il controllo dell' economia del paese e delle leve del potere.
Fu così che, mediante oculate manovre politiche che portarono alle grandi scissioni (sindacale, politica, partigiana), le più penetranti forze democratiche dell'epopea resistenziale furono fiaccate e poté essere conseguentemente attuato il disegno ritardatore dell' attuazione della Costituzione.
Io non sostengo che incompatibilità non vi fossero tra le frange estreme del sindacalismo, del socialismo partitico e nella stessa partigianeria ma sicuramente non erano tali da esigere rotture traumatiche, tant'è vero che oggi sono state in grado di riavvicinarsi e di esprimere una politica sostanzialmente comune. Così è vero, ad esempio, che nel partito socialista di allora, ad ispirazione marxista, esistevano forze che miravano invece ad instaurare all' esterno come all'interno un'autentica democrazia fondata sulla libertà. Ma gran parte di queste forze rimasero nei partiti originari nonostante palazzo Barberini, tant'è vero che poterono poi negli anni portarli a quelle mete di democrazia senza perdere d'identità. Ebbene, se non ci fossero state le scissioni, tutte quelle forze democratiche riunite avrebbero potuto anticipare di qualche decennio la svolta liberal del paese, tra l'altro aumentando i consensi in modo rilevante e mantenendo così intatta una grande forza laica d'attrazione, capace di proporsi, d'intesa anche con l'evoluzione democratica dell'altro grande partito socialista, come protagonista di una vera alternativa. Altrettanto è avvenuto per la scissione sindacale, che rese il padronato più aggressivo e intraprendente, magari portando il paese al cosiddetto boom economico, per gran parte però a spese dei lavoratori dipendenti, anche se in senso relativo miglioravano talune condizioni di vita, e soprattutto a scapito delle condizioni ambientali e della salute umana. Infatti, il permissivismo dovuto all'immobilismo e purtroppo spesso anche alla corruttela della pubblica amministrazione - l'inquinamento dell'aria, dei fiumi, del mare e dell'acqua potabile - cagionava quella devastazione delle nostre bellezze naturali, da rischiare di rendere invivibile questo nostro paese, che è fra i luoghi più belli del mondo. E infine, la scissione partigiana, che ha indebolito il fronte antifascista facendo persino risorgere certe arroganze dimenticate e comunque impedendo che nella protesta la voce della Resistenza assumesse carattere unitario.
Fu facile allora farci apparire come eversori, o nella migliore delle ipotesi per noi intellettuali come utili idioti. Noi però non ci lasciammo avvilire e combattemmo in quegli anni dalla nostra tribuna pertinacemente e ostinatamente la nostra buona battaglia di sempre, quella che veniva dallo spirito della Resistenza e dal ricordo dei nostri morti, la lotta per la libertà, per la democrazia, per l'uguaglianza, per la solidarietà umana e quindi per la pace.
Ma ci sentivamo forti. Perché? perché tutto questo era scritto nella Costituzione e sapevamo quindi di essere nel giusto e di combattere per la legittimità costituzionale, per i principi fondamentali della coesistenza civile. 
 
Questo divario, questo “gap” fra realtà socio-politica del paese reale e dettato della Costituzione testimoniava, infatti, che non vivevamo nella Repubblica che avevamo sognato, e allora inventammo lo slogan «la Resistenza continua», per indicare che volevamo continuare con le idee quella lotta per il diritto che avevamo cominciato con il plastico ed il fucile, facendo guerra alla guerra, all'ingiusto privilegio, alla sopraffazione e alla violenza.
Io non posso, compagni partigiani, ripercorrere qui tutte le tappe di quel nostro confronto incandescente, ma è certo che l'esistenza di una Costituzione democratica e la nostra decisa determinazione, unita a quella dei democratici di tutti i partiti, hanno contribuito a salvare il paese dalla guerra civile almeno in due occasioni.
Una prima volta quando all'epoca di Tambroni partigiani e lavoratori furono costretti a scendere nelle piazze di Genova, di Reggio, di Modena e di altre città, bloccando una pericolosa involuzione e condizionando invece l' evolvere della situazione politica verso un più ampio riconoscimento dei diritti civili e verso la formazione di un governo più aderente al pluralismo e al rapporto delle forze politiche con conseguente consolidamento dell'area democratica. Una seconda volta quando la fermezza del popolo nelle case e nelle fabbriche, la nostra irriducibilità e la solidarietà tra le istituzioni e le forze dell'ordine hanno bloccato e sconfitto lo sconsiderato terrorismo armato. Ma all'una come all'altra situazione di crisi si giunse lungo un arco di tempo di circa un ventennio per l'ostinata miopia di chi non adeguava le leggi ordinarie ai principi costituzionali della Repubblica, deludendo le richieste dei giovani, dei lavoratori, dei democratici e le nostre stesse continue denunce. Tutto l'articolato complesso della vita istituzionale, politica e sociale del paese fu posto sotto il nostro obiettivo: dalla intollerabile lentezza della giustizia, non dovuta certo alla magistratura italiana, alla situazione delle carceri, ridotte a vivaio ed incentivo di delinquenza e di drogati e gravate dalla carenza di riforme radicali a parole sempre promesse ma attuate alla fine con insopportabili ritardi di decine di anni - quella del codice penale sostanziale e del codice di procedura civile ancora attendono - fino al divario, tuttora incolmato, tra nord e sud d'Italia che ha determinato quell'esplosiva situazione economica e sociale su cui le associazioni criminali mafiose, purtroppo, hanno esteso e consolidato il loro dominio di oppressione e di sangue sostituendosi virtualmente al potere dello Stato. Certo che a combattere siffatto grave fenomeno occorrono ormai oculate riforme che consentano la presenza nelle regioni inquinate di forze di polizia strettamente coordinate e di magistrati esperti, ma a tanto non saremmo giunti se negli anni invano trascorsi si fosse fondata e sviluppata in quelle zone una sana economia, che avesse consentito agli onesti e soprattutto ai giovani di sfuggire al ricatto mafioso scegliendo la strada di un lavoro proficuo e corretto. A tanto non saremmo giunti se gli amministratori corrotti fossero stati subito incarcerati, prima che associazioni criminali riuscissero grazie a loro ad introdursi negli organismi pubblici alterandone il funzionamento e le finalità. Invece, senza alcuna preordinazione programmatica e senza alcuna capillare vigilanza sugli enti e sugli uomini si sono fatti affluire laggiù nel corso degli anni enormi capitali diventati poi subito preda della speculazione mafiosa. Sicché alla fine anche l'iniziativa privata non ha trovato più spazio e ha dovuto soggiacere alle intimidazioni e alle estorsioni, pena la vita. Qualcosa di simile è avvenuto per il fenomeno droga: anche qui è mancata in tempi utili una diffusa prevenzione nelle scuole, nelle famiglie, nei mezzi di comunicazione di massa, soprattutto nella televisione, così come è mancata una capillare repressione, lungo le coste come davanti alle scuole, per grandi e piccoli spacciatori, sino al punto che si è tollerato persino il pubblico spettacolo di gente che assumeva e si iniettava droga liberamente per le vie del paese. E sulla droga si è innestato il morbo letale dell'Aids, e su tutto poi il riciclaggio del denaro sporco, frutto delle corruzioni e delle estorsioni mafiose.
 
Compagni partigiani, ma c'entra tutto questo con la Repubblica che la Resistenza aveva voluto e che la Costituzione del 1948 aveva adeguatamente prefigurato?
C'è scritto in qualche articolo di questa Costituzione che la droga, la mafia, la corruzione, la delinquenza anche minorile dev'essere favorita? E l'enorme indebitamento dello Stato in quale titolo della Costituzione è contemplato? O non dipende, invece, dal clientelismo che ha gonfiato di gente inutile gli organici di tutte le amministrazioni senza che ora sia nemmeno lecito ridimensionarli, e dagli sprechi da ogni parte perpetrati a piene mani, tanto in via amministrativa quanto in via normativa, mediante leggi senza coperture? E che dire dei lavori pubblici programmati con preventivi già elevati, e poi ritardati per anni fino a quando i preventivi lievitavano a cifre astronomiche?
C'era scritto nella Costituzione che si dovesse amministrare, governare, legiferare in quel modo?
La Costituzione all'articolo 97 impone il buon andamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione e prescrive che, salvo i casi espressamente stabiliti dalla legge, agli impieghi pubblici si debba accedere per concorso e non per compiacente assunzione diretta da parte dell'assessore o del sottosegretario. E l'articolo 81, ultimo comma, vuole che ogni legge che importi nuove o maggiori spese debba indicare i mezzi per farvi fronte. E infine l'articolo 32 dice che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo, e l'articolo 2 soggiunge che però si richiede dai cittadini l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà. Questo ed altro dice la Costituzione di questa Repubblica. Ma francamente, compagni partigiani, io non riesco a riconoscere né Repubblica né Costituzione nel degrado generale del paese, nell'inefficienza dei servizi, nello squallore di certi ospedali.
Ecco perché non credo che per porre rimedio a tutto ciò si debba cambiare Costituzione e Repubblica. Sono gli uomini che vanno cambiati! E' il modo di fare politica, di amministrare, di governare, che deve cambiare. Con questo non intendo fare d'ogni erba un fascio. Conosco uomini politici, governanti e amministratori che hanno dedicato e dedicano tutto il loro impegno al servizio della società, in rettitudine e in tutta buona fede. Ma i loro sforzi, compagni, i loro sforzi sono resi vani dalla pratica diffusa del lassismo, dall'assenteismo e dalla corruzione. Così quando si afferma che le istituzioni non funzionano perché i partiti le hanno occupate e lottizzate, io domando: ma che cosa s'intende per “partiti”? Conosco centinaia di brave persone appartenenti ai partiti più diversi che si rodono di rabbia per questo stato di cose e che non hanno mai compiuto occupazioni nemmeno di una panca.
Perciò, lasciamo stare i partiti come tali che la Costituzione all'articolo 49 prevede e tutela come libere associazioni di cittadini per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, e non a occupare gli spazi istituzionali. Diciamo, invece, chiaramente che sono alcuni dirigenti di alcuni partiti che, quando la legge, ma più spesso la consuetudine costituzionale, prevedono che una designazione venga dai partiti, anziché mettere l'uomo giusto al posto giusto guardando al bene del paese, collocano gli uomini a loro personalmente devoti nei gangli essenziali del potere senza tanto guardare per il sottile e spesso al solo scopo di esercitarvi la loro influenza o di accrescere l'area elettorale del proprio partito o persino della propria fazione. Da qui derivano gli eccessi e le ingiustizie delle cosiddette lottizzazioni sulle quali è dovuta intervenire con la sua sentenza persino la Corte Costituzionale. Si è così evitato che nei pubblici concorsi invece degli esperti nelle varie discipline di esame venissero inseriti quali commissari uomini dei partiti quasi sempre assolutamente incompetenti nelle materie di esame. Certo, un esperto laico magari c'era, altrimenti la commissione non sarebbe stata nemmeno in grado di procedere all'esame, ma il giudizio poi dipendeva quasi sempre esclusivamente dal modo in cui venivano a formarsi le maggioranze politiche all'interno delle commissioni. 
Ebbene, compagni partigiani, noi siamo stanchi di questo modo di far funzionare la Repubblica e di stracciare i principi fondamentali della Costituzione, ma non siamo stanchi né della Costituzione né della Repubblica che sono state fondate sul sangue della Resistenza.
Basterà che ci siano al Parlamento e al governo uomini di buona volontà che restituiscano alle istituzioni il rispetto e il valore che è scritto nella Costituzione. E perché questo possa verificarsi occorre dare ai cittadini la seria, concreta, effettiva possibilità di determinare con il voto le realtà umane che dovranno dare vera attuazione alla Costituzione e far funzionare in uguaglianza e libertà tutti gli istituti della Repubblica democratica.
Certo, io non intendo con questo negare che qualche adeguamento della struttura costituzionale occorra. Ho più volte ripetuto che non si può pretendere che 45 anni fa i costituenti potessero antivedere lo sviluppo demografico, sociale, economico, politico che il nostro paese ha avuto in quasi mezzo secolo.
Ma basterà allora rettificare i modi della produzione normativa, accelerando la formazione delle leggi mediante alcune modifiche che consentano lo snellimento delle procedure, basterà ridare prestigio e centralità al Parlamento della Repubblica, evitando che le crisi di governo si risolvano nelle sedi dei partiti, anziché nel dibattito e sotto il controllo del Parlamento. Basterà ridare prestigio e potere politico al presidente del Consiglio, basterà modificare la legge elettorale, senza bisogno di ricorrere ad avventure, cariche bensì di fantasia ma anche di gravi pericoli.
Ma soprattutto non possiamo e non vogliamo privarci delle garenzie che i Costituenti hanno posto a difesa di questa Costituzione.
Se di questa voi sfogliaste il titolo VI, vi accorgerete che due sono le garenzie che stanno a baluardo della Costituzione: la Corte Costituzionale, innanzi tutto, che ha il compito di annullare tutte le leggi che non sono conformi ai principi costituzionali e di dirimere tutti i conflitti che possono sorgere fra i poteri dello Stato, fra lo Stato e le regioni e fra le regioni stesse.
Spetta alla Corte anche giudicare dei delitti di alto tradimento e di attentato alla Costituzione che dovessero essere commessi dal presidente della Repubblica, sempre che il Parlamento ritenga di porlo in stato di accusa. Con quest'ultima sua competenza la Corte garentisce il paese da teoriche vocazioni autoritarie del Capo dello Stato che soggiacesse alla tentazione di violare la Costituzione.
La seconda garanzia è nella Sezione II ed è rappresentata dall'ormai famoso articolo 138. Un articolo che, fino a qualche settimana fa, era conosciuto soltanto dagli addetti ai lavori, e che ora è quasi sulla bocca di tutti. Un articolo che qualcuno ha proposto di neutralizzare perché rende lunghe e difficoltose le modifiche alla Costituzione: e così è, infatti, proprio perché i padri costituenti hanno voluto impedire che il legislatore ordinario, a suo piacimento, con la stessa facilità con cui legifera sul prezzo del gas, potesse togliere di mezzo principi costituzionali che il popolo si è guadagnato col suo sangue e con i suoi lutti. E allora hanno voluto che, per procedere alla revisione della Costituzione, ciascuna Camera dovesse adottare la modifica con due successive votazioni, frapponendo tra le due un intervallo non minore di tre mesi, e che la modifica, per essere approvata, dovesse ricevere i voti della maggioranza assoluta dei componenti delle due Camere, capite?, dei componenti non dei votanti! Ma non basta. Se poi, entro tre mesi dalla pubblicazione della modifica, un quinto dei membri di una delle Camere oppure 500.000 elettori oppure cinque consigli regionali ne fanno domanda la modifica stessa dev'essere sottoposta a referendum popolare. Solo se essa fosse stata approvata in seconda votazione a maggioranza di due terzi dei membri di ciascuna Camera, anziché, come si è detto, a semplice maggioranza assoluta, solo in tal caso non si potrebbe far luogo a referendum.
Come vedete, i fondatori della Costituzione hanno preteso che, prima di modificarla, deputati, senatori e popolo ci riflettessero bene, perché si tratta della procedura che ci garentisce da colpi di mano anche sui nostri diritti più gelosi, quali quelli dell'uguaglianza e delle libertà. Sì, è vero, c'è una corrente di pensiero che ritiene che non possano essere sottoposti a revisione diritti che la costituzione definisce inviolabili. Purtroppo, però, non tutti i costituzionalisti sono d'accordo e in realtà sta di fatto che soltanto la forma repubblicana è espressamente sottratta dalla Costituzione al procedimento di revisione costituzionale.
Perciò è evidente che il tentativo d'indebolire questa procedura, o accorciando i tempi o diminuendo i quorum necessari per l'approvazione o inserendo altre gherminelle, sono tutti tentativi che mirano a indebolire la garenzia dei nostri diritti più sacri e della stessa Costituzione.
La Costituzione non sarebbe più rigida ma fluida e perderebbe così il suo carattere essenziale. Ma poi, dico, teniamo tanto ad adottare i sistemi degli altri paesi in taluni settori, magari in quello della Repubblica presidenziale per la quale s'invidiano gli Stati Uniti d'America, ebbene perché non andiamo a vedere come funziona negli Stati Uniti, ma anche negli altri paesi, la procedura di revisione costituzionale. Negli Stati Uniti, per modificare la Costituzione, ci vuole l'approvazione dei due terzi del Congresso - così si chiama il Parlamento degli Stati Uniti - ma anche il consenso di almeno tre quarti dei Parlamenti degli Stati federali; cioè, voi capite che tutti gli Stati che compongono gli Stati Uniti si devono pronunciare e solo se si raggiunge il numero di tre quarti degli Stati è possibile poi passare al giudizio del Congresso. E due terzi di ambo le Camere esige anche la Germania; la Spagna e il Belgio poi vogliono addirittura che gli emendamenti alla Costituzione siano approvati in due legislature diverse. Come vedete, si tratta di procedure di revisione costituzionale molto più rigorose e difficili delle nostre. Il nostro paese, anzi, è il più blando e il più corrivo e lo dobbiamo a Perassi che alla Costituente propose ed ottenne questa semplificazione in contrapposizione a Paolo Rossi - che fu poi, come ricorderete, anche presidente della Corte Costituzionale - che aveva proposto il sistema belga delle due legislature. E ciò nonostante, benché si tratti del sistema più semplificato del mondo lo si vuole indebolire ancora di più, così rendendo addirittura fragili le già modeste garenzie della nostra Costituzione.
 
Sì, amici, è vero: la società italiana durante tutti questi anni è cambiata ed io concordo - l'ho detto - sulla necessità di adeguare il funzionamento e le strutture di taluni organi costituzionali alle nuove esigenze della società. Ma modificare, adeguare, non vuol dire cambiare addirittura la forma della Repubblica ed anche per modificare ed adeguare occorre molta saggezza e prudenza e tempi di riflessione.
Certi mutamenti, che implicano comprensione e consapevolezza dei fenomeni giuridico-costituzionali connessi e dei loro riflessi sulla politica e sulla società, non si possono promuovere a colpi di “sì” e di “no”, ma attraverso studi, riflessioni e discussioni dei politici e dei giuristi, di coloro, insomma, cui il popolo riterrà di delegare il difficile compito.
Certo, il popolo ha approvato col suo “sì” la nascita della Repubblica, ma poi ha delegato ai deputati della Costituente lo stabilire che forma dovesse avere e quali dovessero essere i suoi principi e le sue regole.
Certo, si può anche prevedere che, una volta studiata, discussa e approvata la riforma nelle sedi competenti istituzionali, si sottoponga poi il tutto, per referendum, all'approvazione del popolo: ma allora il popolo avrà dinanzi una precisa configurazione che gli consentirà di meditare e di esprimere la sua volontà a ragion veduta.
Marsilio da Padova, che alla vigilia dell'Umanesimo è stato uno dei più grandi pensatori politici che abbia avuto l'Europa, noto soprattutto anche oggi per avere affermato sempre ostinatamente - pensate, in quei secoli - in contrasto col Papa, e perfino con lo stesso imperatore che era il suo protettore, che tutto il potere doveva sempre appartenere al popolo; tuttavia, per quanto si riferiva alla formazione delle leggi e degli statuti egli scrisse: «E' cosa appropriata e altamente utile che tutto il corpo dei cittadini affidi a coloro che sono prudenti e sperimentati la ricerca delle regole di future leggi o statuti concernenti quanto è giusto e vantaggioso per la società» e suggeriva perciò che questi uomini prudenti e sperimentati fossero eletti dal popolo. E riteneva inopportuno che fosse il popolo direttamente a fare leggi e statuti, cioè le nostre attuali costituzioni, perché, parole testuali, «i meno dotti gioverebbero poco nella ricerca di queste regole giuridiche».
E quanto al capo plebiscitato dal popolo, munito di amplissimi poteri e «custode della Costituzione», rimanderei a Schmitt che lo aveva tanto auspicato in polemica con Kelsen, fautore invece di un pluralismo democratico.
E alla fine Schmitt l'ha avuta vinta e ha ottenuto il gran capo plebiscitato ma era Adolf Hitler! Che portò in tutta l'Europa la dittatura più spietata, l'aggressione armata a popoli inermi, il genocidio e lo sterminio degli oppositori negli atroci lager di Mauthausen, Buchenwald, Auschwitz ed altri deliziosi soggiorni.
Si obietta: beh, ma oggi non sussistono più le condizioni per così gravi conseguenze. E allora io vi rimando a Montesquieu che giustamente ammoniva che «ogni uomo che detiene il potere tende ad abusarne e si spinge così lontano fino a toccare il limite».
Se non si vuole che l'uomo abusi del potere - soggiungeva Montesquieu - è necessario che, secondo l'ordine naturale delle cose, vi siano altri poteri che lo arrestino e lo contrastino.
Amici, compagni partigiani, sono arrivato alle conclusioni. Forse ci sarà anche un po' di romanticismo in questo nostro viscerale attaccamento a questa Costituzione e a questa Repubblica, che oggi festeggiamo perché le abbiamo viste nascere. E chi non ha combattuto perché questa Repubblica fosse, capisco che sia anche disponibile a sbarazzarsene senza troppi rimpianti.
Ma noi, no! Noi che l'abbiamo tanto sognata, noi che abbiamo visto cadere al nostro fianco, o morire nelle torture, i compagni che l'avevano voluta, noi diciamo che si può correggere, si può emendare, si può rettificare nella sua legge fondamentale, ma si può e si deve salvare.
Soprattutto non vogliamo correre pericoli per le libertà che ci siamo conquistate col nostro sacrificio e col sacrificio del popolo italiano.
Perciò, non vogliamo un'altra, una diversa o seconda Repubblica, come non vogliamo continuare a vivere in questa nella quale ci hanno costretto. Noi vogliamo che sia realizzata quella che con il sangue dei nostri morti è stata scritta nella Costituzione, perché quella è la Repubblica degli ideali partigiani, la nostra Repubblica!
Vogliamo la Repubblica dell'amore, della fraternità e della pace: la Repubblica di tutti e non del Presidente, la Repubblica dove l'uomo, dalla nascita alla morte, possa sviluppare in pace e in eguaglianza il suo destino, senza dover sopportare il peso degli errori dei reggitori.
 
I mali che affliggono l'Italia non dipendono dalla Costituzione del '48, ma dagli intrighi di potere, dai tentativi golpisti, dallo stragismo impunito, dalle associazioni criminali coperte da oscure complicità, dalla corruzione dilagante, dallo spreco selvaggio e dall'appropriazione delle istituzioni da parte degli apparati di alcuni partiti.
Ebbene, noi siamo rimasti pochi e ormai anziani, ma dietro a noi c'è tutta l'Italia sana che lavora e che ancora crede a quegli ideali di probità e di fraternità che hanno illuminato la nostra vita. E allora noi “resisteremo” ancora, con tutte le nostre residue forze, e grideremo sempre con la voce dell'anima: viva la Repubblica nata dalla Resistenza!
 
* presidente emerito della Corte Costituzionale. Prolusione nel 45° anniversario della Repubblica. Da: Nicola Magrone, Ernesto Balducci, Tonino Bello, Fabrizio Canfora, Mario Dilio - LAICI E CRISTIANI - IL SEME SOTTO LA NEVE - edizioni dall'interno-Sudcritica, 1996
Ultimo aggiornamento Lunedì 02 Giugno 2014 01:02
 
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