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Scritto da Redazione   
Domenica 23 Febbraio 2014 20:28

L’immigrazione clandestina che non è più reato ma lo saràIMMIGRAZIONE

di Pippo De Liso

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Dal reato all’illecito amministrativo al reato

Via libera all’emendamento del governo, presentato dal sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, che abroga il carattere penale del reato di immigrazione clandestina e lo trasforma in un illecito amministrativo. I sì sono stati 182, a Palazzo Madama, i no 16 e gli astenuti 7. Ecco il testo: “abrogare, trasformandolo in illecito amministrativo, il reato previsto dall’articolo 10 bis del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n 286, conservando rilievo penale alle condotte di violazione dei provvedimenti amministrativi adottati in materia”. Si abroga il reato ma si conserva il “rilievo penale delle condotte di violazione dei provvedimenti amministrativi adottati in materia”.

Il “reato differito”

Al di là del burocratese, Ferri ha dichiarato che "non è un passo indietro". Da un lato il reato di clandestinità è abrogato - ha spiegato in Aula al Senato - dall’altro è trasformato in illecito amministrativo. Ciò significa che “chi, per la prima volta" entra clandestinamente nel nostro Paese "non verrà sottoposto a procedimento penale, ma verrà espulso". Ma, se   rientrasse, a quel punto "commetterebbe reato" (recidiva). Di fatto, hanno commentato i detrattori e tutti i seguaci del pugno di ferro contro l’immigrazione (e in Italia sono parecchi, stuzzicati dalla Lega Nord e da quel che rimane del Centrodestra), il differimento del reato alla recidiva crea una situazione di maggior favore per chi voglia approdare nel nostro Paese. Invece, non è vero niente. L’immigrato può optare per una espulsione volontaria o coatta secondo il comportamento che vuole tenere. Ma è prioritario che deve andarsene. Il servizio è rimesso apparentemente nelle sue mani e la rilevanza penale viene meno poiché, trattandosi di un soggetto senza liquidità e beni, la medesima è interpretabile subito come zelo applicativo e/o accanimento giuridico contro inerme. Proprio un capolavoro è venuto fuori dal governo Letta, sempre in bilico per non cadere, e adesso bello e defunto, un capolavoro di mancata volontà di osare, ingabbiata per lo più da tutti gli strascichi di una legge Bossi-Fini, ben lungi dall’essere ribaltata. Neanche per un attimo si può salutare questo emendamento come un passettino verso la direzione giusta? Il problema non è questo, e ci siamo già espressi in merito, il problema è che ben presto i fatti travolgeranno una legislazione inadeguata e anacronistica e faranno ancora più male.

L’Italia è razzista?

Che la strada dell’integrazione sia tutta in salita è dimostrata dalla seguente dichiarazione dell’ex ministro italo-congolese Cécile Kyenge: “L’Italia non è un Paese razzista, ha una cultura dell’accoglienza ben radicata, ma c’è una non conoscenza dell’altro, non si capisce che la diversità è una risorsa”. Molti passi avanti sono stati compiuti in materia di riconoscimento dei diritti dei richiedenti asilo. Tant’è vero, ma stiamo parlando di ambito europeo (i Paesi membri, Italia inclusa, sono rinserrati nelle loro prerogative e ogni volta che scoppia una sommossa, fa scuola quella nelle periferie di Parigi nel 2005, si dà priorità alla sicurezza e si dimentica tutto il resto), che la protezione internazionale è stata estesa a tutti i richiedenti, che è stato meglio formulato il concetto aggiuntivo di ‘protezione sussidiaria’, che la definizione di ‘familiari’ è più ampia ed è confortata da nuove procedure di tutela. Ma tutto ciò si scontra, inevitabilmente, con una serie di quadri normativi frammentati nei diversi ordinamenti interni, in un rispetto ambiguo per le specificità nazionali, in un continuo rimpallo nazionale /internazionale. Pertanto, i quattro nuovi atti del Parlamento europeo e del Consiglio, in tema di immigrazione e di mobilitazioni in territorio europeo, pubblicati il 29 giugno dell’anno scorso, meglio noti come Regolamento Dublino III, e destinati a sostituire il Regolamento Dublino II a partire da gennaio del corrente anno, rischiano di diventare come l’effetto luminoso di una lontana galassia.

Chi decide è l’Europa

Ma non è tutto. La rinnovata Agenda europea per l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi (COM (2011)455 del 20 luglio 2011, Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni) restringe, a quanto pare, la sfera d’influenza dell’Unione: “Non è appannaggio dell’Unione europea delineare strategie di integrazione, ma può stabilire un quadro per il monitoraggio, la definizione di indicatori e lo scambio di buone pratiche, avvalendosi degli strumenti finanziari europei per incentivare il processo”. Insomma, è il lato oscuro, se vogliamo, del lavoro del giurista che, appunto, inquadra, indica, contestualizza e poi lascia le patate terrose sul campo. Salvo poi rivendicare un’egemonia legislativa sulle specificità nazionali: “L’integrazione è connessa a un quadro normativo e politico definito e coordinato a livello dell’Unione”.

Sta di fatto che l’immigrato, il cittadino straniero, è sottoposto a continui adempimenti amministrativi, anche laddove tace il possibile illecito penale. Si discute da tanto tempo dello jus soli per i giovani nati in Italia, e si continuerà solo a discutere perché non è maturo nemmeno il percorso giuridico-istituzionale dei migranti regolari. E quest’ultimo, fra l’altro, deve confrontarsi quotidianamente con una serie di retrive politiche sociali e con gli standard della nazione ospitante; si parla di accesso ai servizi pubblici, al mercato del lavoro, all’istruzione, all’alloggio sociale, alle cure mediche e quant’altro.

La precaria presenza legale dello straniero in Italia

Insomma, attualmente, la presenza legale dello straniero è oberata da una precarietà temporale e amministrativa e nessuna rilevanza è attribuita alla durata della sua presenza in Italia, ad indici di integrazione, quali possono essere i legami familiari. E’ puramente ideale il peso che viene dato a questi aspetti ed è tirato in ballo solo nei convegni accademici a tema. Emblematica, sia pur nella sua semplicità, è la mostra “Partono i bastimenti”, incentrata sulle emigrazioni che hanno interessato l’Italia dagli ultimi decenni del 1800 fino alle soglie degli anni ’60, tenutasi a Bari nello scorso gennaio, nella Sala Murat di Piazza del Ferrarese. Premettiamo che Bari è tanto piena di problemi irrisolti che non può competere lontanamente, nel Sud, in termini propositivi, neppure con la disassata e contrastata Napoli. Bene, la mostra, organizzata dalla Fondazione Roma Mediterraneo e dal Comune di Bari, avente finalità didattiche nazional-popolari, ha avuto il merito di evidenziare che le migliaia di italiani in partenza per gli Stati Uniti, per il Brasile o il Canada, lasciarono tracce nei Paesi ospitanti e molti di essi si distinsero in svariati campi (soprattutto i discendenti), quasi a scrivere una storia nella storia. Se gli emigrati, come ha scritto Franco Nicotra, curatore della mostra, “si associarono per sentirsi, in qualche modo, sempre vicini all’Italia, sia pure con un comprensibile sentimento di amore-odio”, gli attuali immigrati, che si sono lasciati alle spalle, per lo più, terre con rovine fumanti, concentrano i loro sentimenti di ripulsa proprio verso i Paesi ospitanti che moltiplicano i loro disagi e li trattano a volte come bestie.

Ciò che vogliamo dire è che immigrazione ed emigrazione sono due facce della stessa medaglia e fanno capo alla miseria, alle sperequazioni sociali, ad una politica cieca e distruttiva. E poi non si capisce perché la storia, la memoria, anche in una città a scarsa vocazione culturale come Bari, debba essere intesa solo in una sorta di plateale inconcludenza, mista ad un atteggiamento di affettazione. Sotto questo aspetto, è attualissima la lezione di Nietzsche nella seconda delle “Considerazioni Inattuali”, cioè “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”. Il grande pensatore tedesco era dell’avviso che ‘ingozzarsi’ di storia e di sapere storico senza che questo abbia riflessi nella vita è dannoso e oltraggioso al tempo stesso: “Questo sapere sulla cultura viene instillato o inculcato al giovane come sapere storico; ciò significa che la sua mente viene riempita di un’enorme quantità di concetti che sono ricavati dalla conoscenza, massimamente mediata, dei tempi e dei popoli passati, non dall’intuizione immediata della vita”. Ciò che è vero, è vero sotto ogni latitudine, trova nella storia una conferma, ma va attentamente perseguito. Il contributo che gli immigrati possono offrire e stanno offrendo all’Italia è pari a quello che la “Little Italy” elargì agli Stati Uniti tanti anni fa.

Extracomunitari, comunitari e frontalieri: verso un comune destino. Comincia la Svizzera

Un’ultima parola vogliamo spenderla sul referendum sull’immigrazione che si è tenuto in Svizzera il 9 febbraio scorso. I cittadini svizzeri hanno approvato con una percentuale del 50,3% dei votanti (uno scarto di meno di 20 mila schede) una consultazione promossa dal partito di destra ed antieuropeista dell’Unione Democratica di Centro (Udc/svp) ed intitolata, significativamente “Contro l’immigrazione di massa”. De facto, hanno deciso di introdurre un tetto massimo annuale di immigrati, sia extracomunitari sia provenienti dai Paesi europei. La quota include anche i frontalieri, cioè quei lavoratori – soprattutto italiani – che ogni mattina si alzano per andare a lavorare in territorio elvetico. Domanda: se lo stesso referendum fosse proposto in Italia (e l’ipotesi non è remota, un po’ per il vento fetido di conservatorismo che sta invadendo l’Europa, un po’ per la politica ballerina di cui si fa scorpacciata nel nostro Paese), gli italiani cosa risponderebbero? Con tutta probabilità, una percentuale a doppia cifra voterebbe sì per limitare l’ingresso anche dei cittadini comunitari. Con buona pace dei sogni di gloria dell’Europa e della millantata omogeneità di vedute tra gli Stati membri.

All’orizzonte l’uomo della Provvidenza

Questo significa almeno due cose: che gli italiani stanno maturando un atteggiamento difensivo nei confronti dell’Unione europea; che gli italiani sono pronti a decidere su singole questioni, anche slegandosi da influenze politiche, perché percepiscono che un Paese come l’Italia, incapace di difendere persino i propri concittadini all’estero (i due marò Salvatore Girone e Massimiliano La Torre, in India, non potranno che rattristarsi di fronte all’ennesimo passaggio di consegne al Ministero degli Esteri, non più retto da Emma Bonino), non ha una posizione chiara sui flussi di immigrati, non lotta sul piano internazionale e non apporta alcun contributo per la soluzione dei conflitti nelle zone di guerra. Avvertiva già tanti anni fa un intellettuale scomparso troppo presto (Piero Gobetti): “Soltanto da una preparazione di costumi e di forme non provinciali potrà scaturire un movimento libertario che viva di responsabilità economica e di iniziative popolari”. Altrimenti, il destino sarà sempre quello di seguire un improbabile uomo della provvidenza o un pifferaio di mestiere (oggi si chiama Matteo Renzi).

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Ultimo aggiornamento Domenica 23 Febbraio 2014 20:59
 
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