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Scritto da Redazione   
Domenica 27 Gennaio 2013 20:38

 

LA FAVOLA DEL SALARIO DI PRODUTTIVITA’

 

La politica del lavoro messa in atto, con forte accelerazione negli ultimi anni, compreso il recente accordo fra Governo,PRODUTTIVIT Confindustria, ABI, altre associazioni datoriali e organizzazioni sindacali (CGIL esclusa) relativo alla detassazione del c.d. salario di produttività, si è basata sulla convinzione che - per far fronte al problema - è necessario legare l’andamento dei salari a quello della produttività del lavoro.

In estrema sintesi, la ratio che è a fondamento di questo indirizzo di politica economica risiede nell’idea stando alla quale i lavoratori sono incentivati a erogare maggiore impegno solo se sanno che, così facendo, otterranno incrementi delle loro retribuzioni.


di Guglielmo Forges Davanzati

(Università del Salento)

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La produttività del lavoro in Italia ha raggiunto i suoi livelli massimi negli anni settanta, in una fase contrassegnata da una forte presenza dello Stato in economia e da una rilevante conflittualità sociale. Come certificato nell’ultimo Rapporto OCSE, la dinamica della produttività del lavoro è, in Italia, ad oggi, fra le più basse nell’ambito dei Paesi industrializzati e, a partire dalla svolta neo-liberista degli anni ottanta, è costantemente declinata. A ciò si può aggiungere che, anche a seguito delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, gli italiani lavorano, in media, molto più dei loro colleghi dei principali Paesi OCSE.

A fronte di questa evidenza, la politica del lavoro messa in atto, con forte accelerazione negli ultimi anni, compreso il recente accordo fra Governo, Confindustria, ABI, altre associazioni datoriali e organizzazioni sindacali (CGIL esclusa) relativo alla detassazione del c.d. salario di produttività, si è basata sulla convinzione che - per far fronte al problema -  è necessario legare l’andamento dei salari a quello della produttività del lavoro. In estrema sintesi, la ratio che è a fondamento di questo indirizzo di politica economica risiede nell’idea stando alla quale i lavoratori sono incentivati a erogare maggiore impegno solo se sanno che, così facendo, otterranno incrementi delle loro retribuzioni. E’ una logica che si inserisce coerentemente in un disegno di revisione del modello di relazioni industriali che intende andare (e, di fatto, sta andando) nella direzione della contrattazione “atomistica”, nel quale il singolo lavoratore - con la minima “interferenza” delle organizzazioni sindacali - contratta direttamente con il proprio datore di lavoro. Ed è una logica che trae fondamento dalla tesi secondo la quale nel mercato del lavoro vi è piena parità di poteri contrattuali: i lavoratori hanno bisogno dei datori di lavoro, così come questi ultimi hanno bisogno dei primi.

Occorre rilevare che, nei fatti, questa tesi è falsa. Anche nella condizione più favorevole per i lavoratori, come accade in una condizione di equilibrio di pieno impiego, i datori di lavoro dispongono di un potere contrattuale superiore alla controparte, se non altro perché - avendo maggiori fondi a disposizione (fondi derivanti dal loro patrimonio e/o dai profitti già realizzati) - possono aspettare più tempo per la stipula del contratto. Ovviamente, il potere contrattuale dei datori di lavoro è tanto maggiore quanto maggiore è il tasso di disoccupazione (e quanto maggiore è la libertà di licenziamento), in considerazione del fatto che, in questa condizione, la minaccia di licenziamento, o di non assunzione, è rilevante e credibile, soprattutto se i lavoratori sono facilmente sostituibili.

E’ necessario chiarire che la tesi a fondamento degli accordi sul ‘salario di produttività’ è molto discutibile, per le seguenti ragioni.

1. In primo luogo, è logicamente ed empiricamente impossibile misurare la produttività del singolo lavoratore. La produttività del lavoro è data, per definizione, dal rapporto fra la quantità di beni e servizi prodotta e il numero di lavoratori occupati. L’impossibilità di misurazione discende da due dati di fatto. In primo luogo, la quantità prodotta dipende dalle modalità di organizzazione del lavoro e, in particolare, dal fatto che, di norma, essa varia al variare del grado di cooperazione fra lavoratori all’interno del processo produttivo. In secondo luogo, le economie contemporanee sono caratterizzate da una rilevante incidenza del settore dei servizi, nel quale la quantità prodotta non è misurabile se non quando i servizi vengono venduti e, dunque, può esserlo solo in termini monetari. Da ciò discende che, per entrambi i casi, non è possibile isolare il contributo del singolo lavoratore e, di conseguenza, non è possibile fornire una misurazione fisica della sua produttività.

2. La produttività del lavoro dipende da numerose variabili, fra le quali l’impegno lavorativo risulta, nella gran parte dei casi, quella meno rilevante. La dotazione di capitale fisso per addetto e la dotazione di capitale umano, fra queste, sono da ritenersi le più significative. In tal senso, si può affermare che la bassa produttività dei lavoratori italiani non dipende dalla loro scarsa attitudine al lavoro, ma dalle ridotte dimensioni medie delle nostre imprese (e, quindi, dalla bassa disponibilità di capitale fisso) e dalla scarsa accumulazione di capitale umano. Si tratta, con ogni evidenza, di variabili sulle quali il singolo lavoratore non può agire. Ancor meno i lavoratori - considerati individualmente o nel loro complesso - possono agire su altri fattori che concorrono ad accrescerne il rendimento. Fra questi, innanzitutto, la disponibilità di servizi di Welfare, con particolare riferimento all’accesso alla scolarizzazione e ai servizi sanitari, giacché va da sé che individui istruiti e in buone condizioni di salute sono potenzialmente più produttivi di individui poco scolarizzati e in cattive condizioni di salute. I processi di privatizzazione messi in atto, in particolare, nell’ultimo ventennio hanno contribuito a ridurre la quantità e la qualità di servizi pubblici e, per questa via, a ridurre il potenziale produttivo dei lavoratori.  Ciò è accaduto in un contesto di crescente invecchiamento della popolazione, e dunque in un contesto nel quale - anche per il solo obiettivo di non generare riduzioni di produttività - sarebbe stato necessario ampliare e riqualificare i servizi di Welfare, con particolare riferimento all’assistenza sanitaria.

3. L’impegno lavorativo, a sua volta, dipende in modo significativo dal tasso di disoccupazione. In linea generale, si può ritenere che al crescere del tasso di disoccupazione, crescendo la credibilità della minaccia di licenziamento, i lavoratori sono indotti a lavorare meglio e di più. L’evidenza empirica, con riferimento all’Italia, mostra, per contro, che, almeno negli ultimi anni, questa relazione non si è verificata. Ciò può essere accaduto per il prevalere di un effetto di ‘scoraggiamento’, a sua volta derivante dalla bassa gratificazione derivante dal lavorare in condizioni precarie e con sottoutilizzazione del capitale umano, e dalla bassa probabilità di trovare impiego in caso di licenziamento. In tal senso, le politiche di deregolamentazione del contratto di lavoro (e la connessa maggiore libertà di licenziamento), combinate con il peggioramento delle condizioni di lavoro e la scarsa valorizzazione delle competenze, hanno contribuito a ridurre l’impegno lavorativo e, per conseguenza, la produttività.

In questo scenario, si stenta a capire attraverso quali meccanismi si possa attivare un percorso di crescita e, soprattutto, si stenta a capire in che modo il solo (eventuale) aumento dell’intensità lavorativa possa - in assenza di progresso tecnico – generare significativi incrementi di produttività.

Ultimo aggiornamento Lunedì 28 Gennaio 2013 22:50
 
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